Siria, dopo sei anni ancora niente pace. Si combatte a ridosso della Giordania

by Michele Giorgio, il manifesto | 16 Marzo 2017 9:52

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È difficile prevedere se la nuova carta costituzionale, in discussione ad Astana, si rivelerà la strada giusta per mettere fine alla guerra civile in Siria, giunta al sesto anniversario, che ha fatto centinaia di migliaia di morti e feriti e milioni di rifugiati. I dubbi sono molti. I “ribelli”, al Qaeda, l’Isis e anche l’opposizione politica non rinunciano al sogno di abbattere con la forza il regime «apostata» di Bashar Assad con il pretesto di mettere fine alla «dittatura». E il presidente siriano non abbandona l’idea di vincere la guerra e di riportare tutto il Paese sotto il controllo di Damasco. Il quadro sul terreno intanto resta complesso. La tregua, scattata dopo la liberazione di Aleppo Est, resta fragile ed è riuscita solo a ridurre la violenza. Su tutto pesano gli interessi contrapposti di Arabia saudita, Turchia, e Usa da una parte e di Iran e Russia dall’altra.

Si combatte ancora in molte aree del Paese e non, come si crede, solo a nord dove si sta giocando la partita della riconquista di Raqqa, la “capitale” dello Stato islamico in Siria. Si spara anche ad Est di Damasco dove le forze governative conquistano terreno ma lentamente e nella Siria orientale da Palmira a Deir az-Zor, fino al confine con l’Iraq. La guerra prosegue anche a sud, però se ne parla poco. Lì il quadro militare è caotico. Le truppe agli ordini di Assad hanno recuperato terreno, specie a ridosso delle Alture del Golan occupate da Israele, e altrettanto hanno fatto i miliziani affiliati all’Isis. Un mese fa l’Esercito Khalid Ibn al Walid – fedele allo Stato islamico e che raggruppa 1500 combattenti di tre gruppi jihadisti (Muthanna, Brigate dei Martiri di Yarmouk e Jaish al-Mujahidin), ha preso il controllo dei villaggi di al Shajara, Jamla, Abidin, Qusayr, Nafaa, Ain Thakar, Tasil, Adwan, Jillen e Sahm, approfittando della battaglia tra i governativi e i qaedisti del Tahrir al-Sham per il controllo della regione di Deraa. Hassan Abu Bakr, portavoce degli insorti della Rivoluzione nel Fronte Sud, ha spiegato che gli affiliati all’Isis si sono impossessati di armi pesanti, di carri armati T-55 e cannoni capaci di colpire a grande distanza.
Tutto è avvenuto a qualche chilometro dal confine con la Giordania facendo scattare l’allarme ad Amman. Le armi in possesso dell’Esercito Khalid Ibn al Walid minacciano le città dall’altra parte del confine come Ar-Ramtha e Irbid (la seconda più grande della Giordania), abitata da quasi un milione di persone. All’improvviso è andata in frantumi l’alleanza, volta alla protezione della frontiera giordana, tra il regno hashemita e i gruppi armati (un centinaio) riuniti sotto l’ombrello dell’Esercito libero siriano (Els, la milizia dell’opposizione anti-Assad). Il rischio avvertito dai giordani è che l’Isis possa proclamare un emirato in quelle regioni, quindi sul confine. «I gruppi radicali (dell’Isis) costituiscono una minaccia enorme e potrebbero lanciare missili sulle città giordane e attacchi come quello a Rukban», spiega l’analista Amer al Sabayla in riferimento all’attentato che lo scorso giugno uccise sette soldati giordani sul confine. La minaccia ha indotto re Abdallah ad adottare un approccio diverso, decisamente più pragmatico, nei confronti di Damasco, e a cercare il dialogo con Mosca dove si è recato a gennaio. «Anche perché la Coalizione internazionale (a guida Usa, ndr) non ha una visione oltre i bombardamenti aerei dell’Isis», aggiunge al Sabayla.

Per Bashar Assad, ritenuto dai giordani l’attore più affidabile nel caotico contesto siriano, è un’altra vittoria diplomatica. La situazione comunque resta fluida nel sud della Siria dove fa sentire la sua voce anche Israele. Il viaggio del premier Netanyahu a Mosca, qualche giorno fa, è la conferma che Tel Aviv vuole un’intesa con la Russia, il player più forte in questa fase, allo scopo di garantire i suoi interessi sul terreno e sui tavoli dei negoziati. Il principale è quello di limitare – e idealmente escludere – la partecipazione dell’Iran nel processo politico siriano e di impedire che i combattenti sciiti, libanesi e iraniani, alleati di Assad contro i jihadisti, possano schierarsi ridosso del Golan. Un punto sul quale Netanyahu ha battuto molto e prima di lui anche il capo dell’opposizione israeliana Yitzhak Herzog, volato in Russia con qualche giorno di anticipo sul premier.

Mosca non è in una posizione semplice, ha spiegato l’analista russo Dmitry Maryasis al portale al Monitor, perché Vladimir Putin «vuole mantenere buone relazioni con l’Iran» e non può fare pressioni su Tehran affinchè si ritiri dalla Siria. «Però – ha aggiunto – può ottenere che Hezbollah e altri gruppi sciiti non operino vicino alle linee israeliane». Un favore per il quale Mosca potrebbe richiedere, in cambio, la cooperazione di Israele nel settore del gas.

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