Le donne kurde contro la subalternità

by Chiara Cruciati, il manifesto | 9 Marzo 2017 9:50

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Le manifestazioni per l’8 marzo a Rojava sono cominciate un giorno prima: da martedì le donne kurde hanno preso parte a eventi in tante città del nord della Siria, molte organizzate dalle Ypj e le Yja-Star, le unità armate impegnate contro lo Stato Islamico.

«Tutte le donne devono combattere contro 5mila anni di mentalità di dominio maschile, organizzarsi e portare la loro lotta ovunque per porre fine allo sfruttamento delle donne», ha gridato da Makhmur la comandante Raperin Gabar prima che la festa si sciogliesse nella danza.

L’APPIATTIMENTO DELL’ANIMA più profonda di Rojava compiuta dai media due anni fa quando Kobane fu liberata oggi si è trasformata in silenzio. La stampa di tutto il mondo esaltò le donne-guerrigliere, negando le basi di quella doppia rivendicazione. Che, però, lontano dai volatili riflettori mondiali prosegue: la rivendicazione dell’identità politica e quella dell’identità di donna.

La battaglia nel nord della Siria, dove da anni il popolo kurdo porta avanti un processo di confederalismo democratico, femminista, ecologista, egualitario, anti-settario, passa per la ricostruzione delle città e la fondazione di una società nuova.

Molto passa per l’applicazione diretta di pratiche femministe che diano alla donna il ruolo che le spetta. Per farlo le donne di Kobane e dei villaggi del distretto (liberato dall’Isis nel gennaio 2015) stanno investendo in educazione e lavoro. E in un progetto concreto: la ricostruzione della Casa internazionale delle donne.

A sostenerle, con aiuti finanziari e scambio di esperienze, è da due anni l’organizzazione italiana Ponte Donna Kobane: «La casa delle donne di Kobane è stato uno dei primi edifici demoliti dallo Stato Islamico – ci spiega Carla Centioni di Ponte Donna – Quando siamo arrivate lì, poco dopo la liberazione, abbiamo incontrato l’organizzazione che la gestiva e discusso insieme di pratiche femministe e ricostruzione».

UN’UTOPIA, LA DEFINISCE, che però di lì a poco è diventata realtà: grazie al contributo della Tavola Valdese e di ingegneri e architetti volontari (che hanno usato le immagini dei satelliti per individuare il luogo di costruzione), sono stati realizzati piano strutturale, piano architettonico e computo metrico.

«L’inizio degli scavi risale a luglio 2016: da Kobane sono arrivate le prime foto, la scavatrice che sollevava il terreno, le prime gettate di cemento. Su quello abbiamo costruito due progetti: uno concreto, in cemento armato, a Kobane e uno in Italia, una rete che promuove il progetto e racconta attraverso quella casa cosa rappresentano le donne nell’ambito della rivoluzione del confederalismo democratico».

L’IDEA ALLA BASE È LA STESSA che oggi muove le donne di tutto il mondo intorno al movimento Non Una di Meno: una rivoluzione collettiva, internazionale. «La Casa, su decisione delle donne di Kobane, avrà una sua accademia perché fondamentali sono educazione e cultura – continua Centioni – Un luogo dove le donne si possano incontrare e interrogare, studiare dove nasce l’oppressione». Un percorso dentro la storia con una lettura di genere, dalle radici del patriarcato al suo ribaltamento.

LE PRATICHE FEMMINISTE guidano un movimento sempre più radicato, che si fonda sulla teorizzazione di Öcalan e della leader del Pkk Sakine Cansiz: dalla fine degli anni ’70 il movimento ha cercato un’alternativa tra socialismo reale e modernità capitalista. In tale percorso la schiavitù delle donne è stata vista come base fondante di colonizzazione e sfruttamento dei popoli, il capitalismo come ultima fase ma anche apice del patriarcato.

«TRA LE PRIME COSE FATTE una volta che sfollati e rifugiati sono rientrati a Kobane è stata ricostruire gli asili nido per permettere alle donne di lavorare. Ne sono stati costruiti tre, uno per i diversamente abili. Una pianificazione centrale per la questione femminile, che riparte dai bisogni delle donne».

Attraverso l’accademia la formazione politica va da Kobane ai villaggi per combattere gli abusi fisici e psicologici, la subalternità passiva e attiva, i lacci tradizionali del patriarcato. Il tutto gestito dal Congresso delle donne.

Sullo sfondo un modello politico nuovo in cui i cantoni, amministrati dal basso, lavorano tramite consigli popolari, cooperative e organizzazioni in cui i generi sono rispettati: lo strumento è la co-presidenza, un uomo e una donna, vertice di una società che realizza l’inclusione paritaria delle donne in economia, politica, educazione.

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