La decrescita forzata della Cina

by FEDERICO RAMPINI, la Repubblica | 6 Marzo 2017 15:54

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UNA Cina che rallenta, può essere più malleabile davanti all’offensiva protezionista di Trump, oppure incattivirsi. Il nuovo modello di sviluppo che Pechino un po’ pianifica e un po’ subisce, può farne l’inattesa leader di una coalizione globalista — perfino sull’ambiente.
L’EUROPA può decidere di usare la Repubblica Popolare come “sponda”, per rintuzzare l’aggressività del neonazionalismo americano; ma deve sapere a quali costi si espone.
La locomotiva cinese cresce “solo” del 6,5% che alla luce delle sue performance passate è una frenata. Oggi si applica al gigante asiatico l’immagine che un tempo usavamo per l’America: se Pechino si prende un raffreddore, per noi sarà polmonite? In realtà a prima vista dovremmo festeggiare la notizia. Anzitutto, non dimentichiamo quali brividi ci aveva provocato la Cina un anno fa con le convulsioni dei suoi mercati finanziari: per ora lo shock è superato, grazie a una sapiente miscela di misure dirigiste (incluse restrizioni alle fughe di capitali). La seconda economia mondiale non è più un focolaio potenziale di contagi, com’era stata percepita dai mercati nell’estate del 2015 e nel gennaio 2016. Inoltre i fautori occidentali della “decrescita felice” segnano un punto. Dopo un boom ventennale che ha inflitto distruzioni immani agli equilibri ambientali, non solo cinesi ma mondiali, un “ soft landing” o atterraggio morbido verso tassi di crescita più moderati, dovrebbe essere salutare. Tanto più che oggi è Xi Jinping a proclamare la sua adesione agli obiettivi di Parigi sulla lotta al cambiamento climatico, proprio mentre Trump smantella la sua agenzia ambientale.
La Cina cresce meno, ma non è solo il frutto di una scelta consapevole. Il rallentamento non è tutto dovuto ad una strategia deliberata, quella che vuole operare una transizione verso il modello di crescita più adatto ad un’economia matura, con meno acciaierie e più smartphone, meno cantieri navali e più asili nido. Una parte della frenata è subìta. La transizione demografica è brutale: la nazione più popolosa del mondo rischia di vedere avverarsi la profezia paurosa: «Diventeremo vecchi prima di diventare ricchi?».
Pechino ha dei problemi perfino più urgenti e ancora meno controllabili. La figura di Donald Trump li sintetizza: è la minaccia di un protezionismo dal quale la Cina può perdere più di ogni altra nazione, visto che è la prima esportatrice mondiale. «Tratteremo le imprese straniere come quelle cinesi», ha promesso il premier Li Keqiang. Più che un impegno solenne, suona come un lapsus freudiano. È l’ammissione implicita che Trump ha ragione quando denuncia il protezionismo cinese. Molto prima di Trump, tante multinazionali europee e americane hanno denunciato i mille ostacoli occulti con cui l’apparato amministrativo cinese le penalizza per favorire le imprese locali. Di recente al protezionismo occulto si è aggiunta la campagna anti-corruzione, che ha colpito i beni di lusso made in Italy o made in France (tipici “regali” alla nomenclatura). Il mercato cinese ha smesso di essere un Eldorado per i capitalisti occidentali. I tamburi di guerra commerciale che arrivano da Washington allarmano Xi Jinping e il suo premier anche perché sanno di avere spesso barato con le regole del gioco.
Come Xi aveva fatto al World Economic Forum di Davos, così il suo primo ministro ha profuso parole rassicuranti: «La Cina sarà sempre per la stabilità. La globalizzazione è nell’interesse fondamentale dei nostri paesi». Presa alla lettera, è la candidatura cinese ad una leadership globalista, per riempire il vuoto che si crea con la ritirata isolazionista dell’America. Ma tradisce una paura: Pechino aveva prosperato dentro una Pax Economica americana, e ora s’interroga sull’inizio di una fase storica che sembra molto diversa. Prendere alla lettera Xi e Li quando si proclamano globalisti, è abbastanza rischioso. Non dimentichiamo che se la Cina se l’è cavata dopo i tremori finanziari di un anno e mezzo fa, lo deve tutto alle leve potenti e opache del suo capitalismo di Stato, ben più controllato e pianificato di qualsiasi economia di mercato. È un partner il cui abbraccio può rivelarsi soffocante. Elargisce investimenti generosi che ricordano la strategia dell’impero romano, per includere tutti noi in una nuova rete ramificata di infrastrutture. Ma così come duemila anni fa tutte le strade portavano a Roma, nel titanico progetto della Nuova Via della Seta è molto chiaro quale sia il centro e quale la periferia.

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