by Felice Roberto Pizzuti, il manifesto | 9 Marzo 2017 9:45
I Presidenti del Consiglio cambiano, ma la visione e le scelte della politica economica governativa rimangono le stesse che hanno contribuito a determinare la situazione particolarmente critica dell’economia e della società italiane.
Riferendosi alle nuove proposte di riduzione del cuneo fiscale, dal team economico di Palazzo Chigi si apprende che «l’obiettivo è proseguire nella strada tracciata dal Jobs Act di riduzione delle tasse».
A quanto pare, poco o nulla servono le continue conferme sull’inefficacia e l’onerosità delle misure prese dal Governo Renzi con il Jobs Act per cercare- senza successo – di stimolare la crescita e l’occupazione.
L’effetto principale della riduzione totale dei contributi sociali prevista per tre anni è stato di modificare i tempi delle assunzioni che le imprese avrebbero in gran parte comunque fatto.
Il forte calo di nuovi occupati a tempo indeterminato successivo alla riduzione dello sgravio contributivo dal 31% concesso nel 2015 al 12,4% del 2016 fa anche capire come tagli di pochi punti del cuneo fiscale (come i 4-5 di cui si sta parlando oggi) siano del tutto inadeguati a stimolare assunzioni nel contesto irrisolto dell’attuale «grande depressione».
Indagini che verranno pubblicate nel prossimo Rapporto sullo stato sociale 2017 prodotto in Sapienza, Università di Roma, mostrano che il costo (al netto delle maggiori entrate fiscali) per il bilancio pubblico degli sgravi contributivi concessi nel 2015 e nel 2016 per il triennio 2015-2018 dovrebbe oscillare – a seconda delle ipotesi sulla durata di fruizione degli sgravi – tra i 13 e i 19 miliardi di euro.
Con riferimento al 2015 (anno nel quale la decontribuzione è stata completa), rapportando il costo sostenuto al numero dei nuovi occupati a tempo indeterminato ad essa ascrivibili, nell’ipotesi che essi rimangano in attività per l’intero triennio di validità degli sgravi, il costo di ogni nuova assunzione oscilla da 25.000 a 50.000 euro (a seconda delle ipotesi minima e massima sul numero di nuovi occupati imputabili allo sgravio).
Anche la cifra minore delle due sta comunque ad indicare un costo molto elevato, equivalente all’intera retribuzione lorda di un dipendente pubblico ad inizio carriera.
Ma misure di decontribuzioni fiscali, come quelle operate con il Jobs Act e quelle attualmente in discussione, vanno valutate anche per la qualità della nuova occupazione, della crescita economica e della distribuzione.
È da tempo noto che rispetto alla media dell’Unione europea il nostro paese registra da un quarto di secolo una evoluzione economico-sociale sensibilmente peggiore (come indicano confronti tra l’evoluzione del Pil, i tassi d’occupazione, i tassi di natalità, gli indicatori di povertà e diseguaglianza, ecc.).
È altrettanto noto da tempo che una causa strutturale del nostro arretramento economico-sociale relativo (negli ultimi dieci anni anche assoluto) risiede nella nostra minore capacità di innovazione produttiva. Nonostante il numero dei nostri laureati per abitante sia il più basso dell’Unione europea (dopo la Grecia), quei pochi che lo diventano trovano occupazione con più difficoltà che in altri paesi perché il nostro sistema produttivo persiste ad operare prevalentemente in settori maturi nei quali non servono lavoratori con elevata formazione.
In queste condizioni, la competitività è affidata solo alla riduzione del costo dei lavoratori e al loro impiego flessibile. Le statistiche demografiche segnalano da tempo non solo che i nostri laureati cercano lavoro all’estero, ma che anche gli immigrati arrivati nel nostro paese lo abbandonano per poter trovare occupazioni più soddisfacenti.
Tutto ciò ricordato e premesso, le analisi dell’occupazione creata (momentaneamente) dalle misure di riduzione del costo del lavoro introdotte dal Jobs Act mostrano che essa è caratterizzata da bassi livelli di specializzazione, è diffusa essenzialmente in settori a scarsa intensità tecnologica, è costituita prevalentemente da lavoratori over 55 anni.
Questi risultati accentuano le carenze strutturali del nostro sistema economico-sociale e non dovrebbero lasciare dubbi sulla natura controproducente della visione politica che li ha determinati e che viene perseguita con colpevole perseveranza. Non da ultimo, le proposte in discussione per ridurre il cuneo fiscale, rischiano di tradursi anche in peggioramenti distributivi e in ulteriori tagli alle pensioni pubbliche.
A livello internazionale, il dibattito sulla «stagnazione secolare» mette sempre più in evidenza la necessità di ampliare e ridefinire il ruolo pubblico, ma sopperendo e non assecondando i tentativi degli operatori di mercato di conservare illusorie rendite di posizione, mirando all’aumento e alla ricomposizione qualitativa degli investimenti e dei consumi, adottando politiche per il mercato del lavoro e di welfare tese a stabilizzare l’occupazione e i redditi, migliorando l’equità distributiva e, nell’insieme, intervenendo con modalità coerenti alle necessità di un superamento di tipo progressivo della crisi.
La politica italiana mostra di essere particolarmente indifferente a questo dibattito, ma lo è anche verso le crescenti evidenze empiriche del complessivo declino (economico, sociale, demografico, culturale, civico, …) del nostro paese cui ha fortemente contribuito e che continua ad alimentare.
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