Ungheria. Cani e manganelli, le violenze contro i migranti
SUBOTICA (SERBIA). Nascosti tra i boschi alla ricerca di un varco e poi, una volta trovato, di corsa oltre il confine cercando di evitare i radar e i cani. Sono centinaia i profughi che ogni notte aspettano sotto il muro-Europa tenendo d’occhio la seconda recinzione che l’Ungheria sta costruendo dopo la barriera lunga 175 chilometri che già separa il Paese dalla Serbia. E sono decine le volte che provano a superare le due barriere. Anche stasera.
Chi riesce a passare, se sorpreso in territorio ungherese, viene brutalmente picchiato per ore, come è successo il 25 febbraio scorso a un gruppo di 75 migranti. Spray negli occhi, manganelli, colpi nelle costole, sui piedi, attaccati e morsi dai cani. «Ero riuscito a percorrere almeno 40 chilometri in territorio ungherese quando i poliziotti ci hanno arrestati. Hanno distrutto i nostri cellulari e sequestrato le scarpe, ci hanno picchiati e costretto a tornare indietro scalzi nel freddo», racconta Rehab, pachistano con l’occhio nero sanguinolente, nella stazione di Subotica, nella serba Voivotina. Tra i binari ci sono altre persone ferite, con gli arti rotti.
Molti sono bambini, perché circa il 50% dei migranti giunti in Serbia attraverso la rotta balcanica sono minori, il 20%, dei quali non accompagnati. Ma la notizia degli abusi che subiscono non sembra arrivare mai a Bruxelles. Ahsan, un bambino di appena 12 anni, è scappato dallo stato indiano del Gujarat, ora vive da 3 mesi nel campo di transito di Subotica in attesa di essere registrato sulla lista ufficiale per l’Ungheria, un assurdo imbuto attraverso il quale passano solo 10 richiedenti asilo al giorno (mentre sono circa 7.000 i profughi intrappolati in Serbia da marzo scorso.) La notte allora, rappresenta l’unica speranza: «Border crossing» ripete Ahsan nel suo inglese orecchiato lungo la strada. Dopo aver passato il confine, a gennaio scorso, i poliziotti ungheresi gli hanno tolto la giacca e le scarpe e lo hanno obbligato a stare steso per ore a terra, nel gelo. Poi lo hanno costretto a tornare indietro a piedi e scalzo verso il confine. Temperatura: meno 20 gradi.
Questa tortura del freddo non è certo un caso isolato, è una pratica messa in atto anche dalla polizia croata, come hanno denunciato in un rapporto gli osservatori di Welcome Initiative e Are you Syrious?. Shahid, giovane pachistano di Lahore, racconta che a gennaio è stato costretto da agenti di polizia croati a svestirsi e a immergersi nudo nel fiume che avevano appena attraversato. Con lui c’erano altri dieci pachistani. «I poliziotti sparavano nell’acqua per impedirci di scappare», racconta. «Noi gridavamo pregandoli di farci uscire perché stavamo morendo per il freddo, ma ci hanno fatto rimanere nudi nell’acqua gelata per 30 minuti. Alla fine ci hanno scaricati dall’altra parte del confine, in Serbia».
Nella fabbrica di mattoni abbandonata a Subotica, Manzoor racconta il trattamento subito dopo l’ennesimo tentativo di passare il confine a Shid, nel lato croato. «Dopo averci pestato, ci hanno caricati su un furgone, fatti scendere uno alla volta in mezzo a due file di poliziotti hanno iniziato a picchiarci: hanno giocato a calcio con i nostri corpi e poi, ridendo, si sono fatti i selfie». Conditi da insulti razzisti. «Gridavano “Non vi vogliamo nel nostro paese, siete terroristi, talebani, qua non passerete, siete dei rifiuti”», ricorda Manzoor.
Una violenza non casuale, sistematica e pianificata. «È come se ci fosse un “pacchetto di violenze standard” da applicare, un rito brutale progettato per far sì che le persone non tentino di varcare nuovamente il confine europeo», dice Christopher Stokes, direttore generale di Medici senza frontiere, appena rientrato dalla Serbia. «I leader europei dovrebbero discutere se è con questa la brutalità che progettano di difendere i propri confini». Morsi e arti rotti raccontano l’opera di deterrenza in corso. Impedire ai migranti di camminare, renderli invalidi, sfibrare i loro corpi, stancarli, esaurirli, terrorizzarli.
E per questo serve anche una frontiera orwelliana e high tech, fatta di rasoi, ma anche di modernissimi sensori capaci di catturare il calore umano e di dare l’allarme, una frontiera che attraverso gli altoparlanti avverte in tutte le lingue (arabo, farsi, inglese): «Questa è la frontiera ungherese, tornate indietro».
Il parlamento di Budapest ha appena votato un progetto di legge che permette di deportare i richiedenti asilo dal territorio ungherese verso il confine con la Serbia e, soprattutto, di tenerli chiusi in container allestiti in appositi campi lungo i confini meridionali del paese per tutto il tempo necessario a esaminare la loro richiesta di asilo. Umani in shipping container.
In realtà le deportazioni dall’Ungheria verso la Croazia e la Serbia vanno avanti da mesi e a subirle sono anche richiedenti asilo, come denunciato più volte dall’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati. Nella sola notte tra il 21 e il 22 febbraio 240 persone sono state espulse dall’Ungheria, e tra queste 60 erano richiedenti asilo. Persino profughi siriani sono stati picchiati, due sono stati portati in ospedale. Mohammed era scappato dalle bombe di Aleppo e non riesce a credere di essere stato massacrato di botte nel cuore dell’Europa.
Dalla clinica di Belgrado, Msf pubblica su Twitter le foto delle contusioni da pestaggi, morsi di cani, infiammazioni degli occhi provocate da gas e spray al peperoncino, tutte lesioni riscontrate sui profughi: ferite intenzionali, perpetrate dalle pattuglie ungheresi che confermano i racconti fatti dai migranti.
Oltre ai corpi, la mente si ammala. La chiusura dei confini europei si traduce per alcuni in gravi forme di depressione. Anche perché dopo aver speso tutti risparmi nel viaggio, si ritrovano bloccati in Serbia, senza possibilità di lavoro, senza poter tornare indietro né andare avanti. E se sei un uomo single pachistano o afghano, senza prospettive di passare il confine salvo quella di dover aspettare 2-3 anni, che speranza puoi nutrire?
Di fronte al Muro, l’unica alternativa è rimettersi nelle mani dei trafficanti. Come confida Manzoor, che parla un inglese perfetto e ha un master conseguito all’Università di Lahore. «They are killing us mentally, they kill you every day». E aggiunge: «Se vieni deriso mentre vieni picchiato, qualcosa muore dentro di te. Ogni notte ho l’incubo delle frasi che mi hanno gridato le guardie di frontiera».
Mentre cala il buio, sui binari piccoli gruppi di migranti spariscono nella jungle, una steppa umida e gelata dove cercare un riparo per la notte. «Ogni sera cambiamo posto, una volta nella foresta, una volta nei vagoni» dice Bilal, algerino di Oran. «Non ci fermeremmo mai».
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