Europa: ecco perché non dobbiamo dirci sconfitti
La geografia, la storia e l’orizzonte politico sono stati sconvolti dalla fine della guerra fredda e dalla delegittimazione dell’idea socialista sotto tutte le sue forme che ne è derivata. L’obiettivo di una «unione senza sosta più stretta tra i popoli europei» ha ceduto il posto de facto a un sistema di integrazione «a varie velocità» o addirittura, in alcuni paesi messi sotto tutela, a pratiche neocoloniali
A sessant’anni dal trattato «fondatore», l’Unione europea è ben lungi dalla stabilità, dalla legittimità, dallo sviluppo concertato che, solo qualche anno fa, ci avevano garantito i suoi dirigenti. Alla vigilia dei negoziati della Brexit, che è stata un campanello d’allarme sull’impopolarità del «progetto europeo», sembra al contrario che questo sia entrato in una crisi irreversibile e la sua stessa esistenza sia messa in questione.
Senza dubbio, bisogna avere la mente lucida sul «catastrofismo» oggi diffuso. Resta però un’accumulazione di ostacoli e di contro-performance la cui coincidenza non dipende dal caso. Li enumeriamo senza pretesa di esaustività: persistente fragilità dell’euro e moltiplicazione dei debiti, con il trattamento inflitto alla Grecia che mostra sufficientemente che il potere politico-finanziario non sa (e senza dubbio non vuole) trovare una soluzione; tragedia dei rifugiati, che l’accordo disonorevole con la Turchia non ha fatto che spostare temporaneamente da una frontiera all’altra; sprofondamento nell’austerità, che accelera la deindustrializzazione dei territori, mette in concorrenza «dal basso» i lavoratori di diverse nazionalità e liquida le risorse del welfare; ingovernabilità e crisi delle istituzioni parlamentari che, da un paese all’altro, manifesta il discredito della politica nelle sue forme tradizionali.
A questo va aggiunto, last but not least, la crescita delle sfide internazionali che si traducono nelle tensioni tra la Nato e l’impero russo, il contagio della guerra in Medioriente, la svolta anti-europea dell’amministrazione statunitense…
Si capisce allora che, anche a sinistra, una specie di brutta esaltazione invada coloro che, per ideologia o ragionamento, non hanno mai «creduto» nella costruzione europea, nella quale vedono solo una macchina imperialista, mentre a coloro – di cui faccio parte – per i quali la cittadinanza europea è ad un tempo un ideale e un mezzo per affrontare le sfide del mondo contemporaneo, viene intimato di giustificare ciò che impedisce di dichiararsi sconfitti…
Prima di procedere con l’analisi è necessaria una riflessione preliminare: l’Europa attuale ha molto poco a che vedere con quella che (sotto un altro nome) i Trattati di Roma avevano solennemente fondato sessant’anni fa. La geografia, la storia e l’orizzonte politico sono stati sconvolti dalla fine della guerra fredda e dalla delegittimazione dell’idea socialista sotto tutte le sue forme che ne è derivata.
L’obiettivo di una «unione senza sosta più stretta tra i popoli europei» ha ceduto il posto de facto a un sistema di integrazione «a varie velocità» o addirittura, in alcuni paesi messi sotto tutela, a pratiche neocoloniali. L’ambiente con il quale è in collegamento attraverso i flussi di capitali, di popolazioni, di informazioni più a meno «dissimmetriche» che pesano su tutte le sue evoluzioni interne, è il mondo senza legge – ma non senza padroni – della finanza globale e del grande spostamento verso oriente dei poli di ricchezza e accumulazione.
Tutte queste trasformazioni sono collegate, anche se la loro articolazione è complessa. Hanno fatto nascere l’Europa di Maastricht, che ha scolpito sulla porta il principio “sacrosanto” della «concorrenza libera e non falsata», alla quale ogni impresa e modo di vita devono piegarsi.
È questa Europa «realmente esistente» di cui bisogna valutare le risorse, ripensare la funzione per i cittadini e per il contesto internazionale. Al massimo la Dichiarazione di Roma può ricordare che c’è stato un grande progetto politico e che potrebbe essercene un altro, per il secolo in corso.
Di cosa si dovrà discutere tra europei, nei giorni e negli anni che verranno, mentre si aggraveranno le tensioni e le patologie dell’interregnum?
In primo luogo del nazionalismo, di cui osserviamo la rivincita sull’idea «federale», minata da sospetti di illegittimità e dall’impopolarità. Dietro il nazionalismo, ci sono evidentemente le formazioni nazionali stesse, in quanto entità simboliche e sistemi di solidarietà collettiva.
L’unificazione europea aveva rafforzato gli stati ai tempi delle politiche «sociali nazionali». Serve oggi al contrario a minare le relazioni di lavoro e la sicurezza sociale. Il nazionalismo è quindi diventato estremamente reattivo. Tuttavia non dimentichiamo ciò che ha favorito questo slittamento: il modo in cui i governi, preoccupati innanzitutto di preservare il proprio monopolio come rappresentanti dei popoli, hanno approfittato della svolta dell’89 per bloccare qualsiasi evoluzione verso una sovranità condivisa. Non c’è mai stato un vero federalismo in Europa, in particolare perché l’idea repubblicana della «divisione dei poteri» non è mai risalita fino al livello comunitario. La debolezza del Parlamento europeo ne è il segnale più chiaro.
In secondo luogo, bisogna discutere «strategicamente» del rapporto tra mondializzazione e costruzione europea. Per gli uni, l’Europa è lo strumento della mondializzazione capitalista, cioè della mercificazione integrale con effetti sociali devastanti. Per gli altri, almeno virtualmente grazie all’equilibrio che può trovare tra protezioni locali e regolazioni globali, è il mezzo per resistere al nuovo Leviatano. La disputa sull’euro e la sua articolazione con le politiche economiche comuni è al centro di questo dibattito. Mostra bene, mi pare, che non esiste una via di mezzo tra un orientamento neo-liberista e un orientamento socialista, che va ridefinito. È in Germania che, probabilmente, si giocherà questo conflitto, ma non lo sarà in modo isolato, indipendentemente dall’intervento di tutti noi.
Infine, va affrontata di petto la questione del «populismo». In realtà, non è che il rovescio della questione del demos europeo e questo, a sua volta, non è che il termine simbolico che ricopre i problemi dell’ampliamento delle pratiche democratiche.
Il populismo non è il nazionalismo, anche se attraverso il sovranismo si collega ampiamente ad esso, a destra e a sinistra. Non è neppure il fascismo, anche se le correnti xenofobe all’offensiva in quasi tutti i paesi europei ne colonizzano il linguaggio «antisistema», se non addirittura gli obiettivi istituzionali. L’establishment universitario e dei media appare coalizzato nel rafforzare questi amalgama. Al contrario, andrebbero sciolti metodicamente, per immaginare e costituire un’alleanza tra l’esigenza di sovranità popolare e quella del superamento delle identità esclusive.
In altri termini, per concludere: si può, credo, accettare in pieno la posizione di coloro che, a sinistra in particolare, descrivono la costruzione europea attuale come un fallimento e un ostacolo al miglioramento del destino dell’immensa maggioranza.
Tutto, salvo una cosa: che il crollo delle istituzioni europee e a fortiori l’abbandono delle prospettive di federazione in Europa rappresentino una condizione positiva per le lotte del futuro.
Per questo bisogna perseverare, ma al prezzo di una trasformazione politica radicale, che generi nuovi rapporti di potere in Europa e sia l’opera di tutti i cittadini.
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