Francia. Effetto jihad sulle presidenziali

by ANAIS GINORI, la Repubblica | 27 Marzo 2017 11:26

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NIZZA. L’appuntamento è sulla collina del Castello, dove l’orizzonte si apre su tutta la Riviera. «Era un luogo caro alla mamma » spiega Latifa Charrihi. Sua madre, Fatima, è stata uccisa nell’attentato sulla Promenade, il 14 luglio scorso. La prima delle 86 vittime falcidiate dal tir impazzito lanciato contro la folla. Una musulmana, come un terzo delle persone morte quella sera e come il terrorista Mohamed Lahouiej Bouhlel. Il giorno dopo l’attacco Latifa era andata sulla Promenade per deporre dei fiori. Le sorelle e le zie, che indossavano il velo, sono state insultate. «E ora vi spostate pure in branco?» aveva gridato un passante. «Nostra madre è stata uccisa qui». «Meglio così, una di meno» era stata la replica. La famiglia Charrihi, arrivata dal Marocco all’inizio degli anni Novanta, si era sentita doppiamente vittima – della violenza integralista e del razzismo anti-musulmani – senza avere la forza di rispondere. Qualche mese dopo una delle figlie, Hanane, ha deciso di pubblicare un libro per difendere la memoria di Fatima che predicava la tolleranza, l’integrazione, la non violenza. E Latifa, 31 anni, ha fondato un’associazione che presto organizzerà seminari nelle scuole per promuovere il dialogo, spiegare che l’Islam è una religione di pace. Il nome è “Madre patria”, come il titolo del libro: una risposta a tutti quelli che soffiano sulle divisioni e vorrebbero escludere la comunità musulmana dalla République. «Siamo francesi come gli altri» dice Latifa che incontriamo sotto un pino marittimo del giardino panoramico. «Mia mamma era andata sulla Promenade per celebrare la festa nazionale » ricorda la donna che dopo il lutto ha deciso pure lei di indossare il velo.

Sul lungomare gli alberghi sono di nuovo pieni, il turismo sta ripartendo. Nel parco dove c’erano fiori e omaggi alle vittime è sparito tutto, sono in corso lavori di ristrutturazione. La città governata dalla destra, dove il Front National conquista elettori, è lo specchio delle tensioni che attraversano il Paese alla vigilia del voto in pieno stato di emergenza. L’attentato del 14 luglio rappresenta un format di “terrorismo low cost” quasi imprevedibile, ripetuto con l’attacco al tir a Berlino e quello con l’automobile sul ponte di Westminster la settimana scorsa. La risposta dei candidati all’Eliseo è, con sfumature diverse, rafforzare le misure di sicurezza. Nei programmi nulla o poco viene proposto su come trattare le migliaia di giovani indottrinati, almeno 15mila secondo gli ultimi dati disponibili. Da quando la Francia deve convivere con la minaccia terrorista, sono stati lanciati quasi un centinaio di programmi di “deradicalizzazione”. Secondo un rapporto parlamentare pubblicato a febbraio i risultati sono stati finora deludenti, milioni di euro di fondi statali sarebbero andati in fumo. La responsabile di un’associazione che aveva vinto un appalto è stata processata qualche giorno fa per truffa. Il primo centro sperimentale aperto l’anno scorso dal governo a Pontourny, nella regione della Loira, oggi è vuoto, travolto dalle polemiche.
«Non esistono risposte semplici a fenomeni complessi». Sorseggiando un bicchiere di rosé nella città vecchia, Benjamin Erbibou racconta il suo lavoro a Entr’Autres. L’associazione è nata dieci anni fa per occuparsi dei giovani di periferia usciti fuori da ogni percorso scolastico o professionale, e spesso già piccoli delinquenti. Adesso è chiamata da famiglie ed enti pubblici per lavorare su ragazzi, talvolta con lo stesso profilo, attratti dal fanatismo islamico. Erbibou, trentenne con alle spalle studi di Scienze Politche, condivide la teoria dell’orientalista Olivier Roy sulla cosiddetta “islamizzazione della radicalità”. Anche per questo, spiega, l’approccio deve essere pluridisciplinare. I colloqui con ragazzi e genitori, spesso in gruppo, sono condotti da psicologi, antropologi, islamologi, specialisti di geopolitica. Le radici dell’odio nascono da lontano. Un primo passaggio chiave, ricorda Erbibou, sono stati gli scontri nelle banlieue del 2005. «Allora molti ragazzi si accorsero del razzismo di cui erano vittime». Dal 2008, con l’aggravarsi del conflitto in Medio Oriente, si sono cominciati a diffondere proclami anti-occidentali e antisemiti.
«La religione non appariva ancora, ma intanto la difesa della comunità musulmana era passata davanti a quella francese» osserva Erbibou, citando alcuni commenti nelle banlieue dopo l’attentato a Tolosa di Mohammed Merah nel 2012. Molti ragazzi giustificavano il terrorista perché, dicevano, «non ha ucciso bambini, ma piccoli ebrei». La spaccatura è diventata definitiva quando si è inserito l’indottrinamento religioso. L’associazione di Nizza riceve sempre più richieste di sostegno da enti pubblici che devono far fronte a contestazioni della laicità, con infermiere che vogliono portare il velo negli ospedali, genitori che fanno petizioni per escludere la teoria evoluzionista dai corsi di scienza. La psicologa dell’associazione, Anne-Laurence Halford, abita nel quartiere Madeleine dove vivono molti musulmani. L’attuale clima elettorale non facilita la convivenza. «Molti giovani – racconta – ci chiedono se saranno espulsi dal Paese dopo le elezioni in caso di vittoria del Front National». I due responsabili di Entr’Autres fanno prova di onestà: la “deradicalizzazione” di giovani già indottrinati fino al tentativo di partire per la Siria, o che ne sono tornati, è quasi impossibile. «Si può intervenire solo sulla prevenzione, appena ci sono i primi segnali e se c’è un forte aiuto delle famiglie ».
David Thompson ha incontrato decine di jihadisti francesi tornati in Francia da Siria e Iraq. Le testimonianze sono state raccolte nel bestseller “Les Revenants”. Ha un giudizio severo sui progetti di “deradicalizzazione”. «La verità è che dopo quasi tre anni di varie sperimentazioni nessuno ha capito davvero come fare». La maggioranza di quelli che tornano dal fronte, spiega, resta fedele all’ideologia jihadista. «Sono delusi, ma non pentiti» commenta Thompson che ha lavorato da corrispondente per la radio Rfi in Tunisia subito dopo la rivoluzione dei gelsomini ed è stato uno dei primi ad allertare sull’esodo dei combattenti stranieri verso il Califfato. «Più di mille francesi – ricorda sono partiti senza che nessuno se ne accorgesse, fuori dai radar della sicurezza, delle università, dei media». La Francia è condannata ancora per molto a subire il contraccolpo di quell’abbaglio.

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