by Emanuele Iaculo, il manifesto | 24 Marzo 2017 10:40
Due anni dopo, la sana esperienza di «Je so’ pazzo» ha trasformato uno strumento prediletto del fascismo in casa del popolo: un luogo di ascolto e di azione contro il disagio psichico e sociale
NAPOLI. Si nota subito, anche se non chiedi informazioni. Una volta uscito dalla metropolitana, in fondo a via Imbriani, la vedi: un’imponente struttura che si erge nel centro di uno dei più antichi e popolari quartieri di Napoli, il rione Materdei. Le mura esterne ormai annerite dal tempo sono percorse da immensi e colorati murali che non riescono a cancellarne l’inquietante aspetto. Dall’esterno non c’è niente che possa richiamare alla memoria quello che era un antichissimo monastero. Le grate di ferro arrugginito alle finestre, le squallide lamiere incastrate fra loro a formare torrette di sorveglianza e i fili elettrici penzolanti restituiscono solo la fredda immagine di un luogo di reclusione.
A differenza di altri edifici destinati alla detenzione, costruiti in zone periferiche delle città, l’ex ospedale psichiatrico giudiziario (“Opg”) di Sant’Eframo è circondato da tanti palazzi, alcuni molto alti. Chi abitava agli ultimi piani poteva intravedere e sentire frammenti di quotidianità di una istituzione totale. Come l’anziana signora Maria, che racconta: «A vvot’ e sentev alluccà accussì fort’, non ti so dire se erano allucc’ e pazz’ o…capisc a me!». Più volte ha sentito urlare, senza poter distinguere se si trattasse di urla deliranti o di sofferenza, ma poi gesticolando con la mano allude alla violenza. E continua: «Ho visto pure quann e purtàvn che cammis e forz’, ma dopotutto tu devi guardare pur o fatt’ ca chist erano gente pericolosa, ‘e famiglie pure hanno passato un guaio o no?». Maria dice che «questo posto» le ha sempre fatto un po’ paura. Sai che esiste, sai cosa è, ma non sai cosa avviene tra le sue mura. Un’opacità mantenuta fino a quando nel 2008 l’Opg è stato dismesso e i suoi “abitanti” trasferiti in un’ala del carcere di Secondigliano a Napoli.
Gli Opg, ospedali psichiatrici giudiziari, così nominati dal 1975 con la legge n.354 sulla riforma penitenziaria, sono meglio conosciuti in Italia come manicomi criminali. Fin dalla loro nascita, è l’ambiguità politico-giudiziaria a caratterizzare queste istituzioni. Espressione prima delle teorie di Lombroso sul trattamento dei pazzi criminali poi simbolo dell’ideologia repressiva fascista, queste strutture speciali sono state di norma destinate alla detenzione, piuttosto che luoghi di cura o reintegrazione sociale. Negli Opg venivano internati i “folli rei”, malati di mente che hanno commesso un reato, prosciolti perché incapaci di intendere e di volere secondo l’art.46 del Codice penale Zanardelli (1889), ma ritenuti socialmente pericolosi secondo il Codice Rocco (1930) e condannati al cosiddetto “ergastolo bianco”, una misura di sicurezza detentiva che prevede una pena indefinita e prorogabile nel tempo. Gli Opg sono stati chiusi ufficialmente il 31 marzo 2015.
È una carcassa vuota e arrugginita quella che si ritrovano sotto gli occhi il 2 marzo 2015 gli studenti del collettivo autogestito universitario (Cau) di Napoli, accomunati dall’idea di fondo che la lotta contro i sistemi repressivi, le disuguaglianze sociali, la precarietà/assenza di lavoro, la marginalizzazione delle classi più povere è praticabile solo se parte dal basso, cioè dal popolo. Ed è al popolo che si rivolgono quando decidono di occupare la struttura. Quello che era un simbolo di chiusura e di esclusione, attraverso un processo di rigenerazione sociale e culturale, sarà trasformato in un luogo aperto restituito alla città, rinominato «ex Opg Je So Pazzo!».
I primi giorni non sono così facili. A meno di ventiquattro ore dall’occupazione i ragazzi si ritrovano a fronteggiare l’irruzione degli agenti di polizia penitenziaria che minacciano lo sgombero immediato. Ma poi accadono fatti inaspettati: la gente del quartiere, il popolo di Materdei, appoggia il “progetto” di occupazione. Questo luogo diventerà in pochi mesi, come ci tiene a raccontare con tono entusiasta e di sorpresa V., una delle attiviste, «un punto di riferimento per il quartiere. Pensa che abbiamo fatto mettere un semaforo a via Salvator Rosa perché sono morte investite delle persone. Sono venuti a chiederlo a noi e al prete». Chi, come V., fa parte del collettivo chiede di non associare nomi e cognomi alle loro azioni o dichiarazioni perché «per noi è importante dare sempre un respiro collettivo a ciò che facciamo, senza personalizzare gli interventi». La loro idea è “costruire” un posto che abbia una funzione sociale attraverso iniziative politiche e attività gratuite.
Non un centro sociale classico ma una “casa del popolo” che possa essere vissuta da persone diverse. Un luogo dove in alcuni giorni della settimana, a seconda della disponibilità dei medici e dei macchinari che vengono prestati, è possibile effettuare ecografie alla tiroide e mammarie, prenotando su internet. Qui è attivo uno sportello d’ascolto guidato da psicologi, assistenti sociali e componenti del collettivo. È per la popolazione di Materdei. N., una studentessa specializzanda in psichiatria, racconta come qui «garantiamo ascolto alle storie di sofferenza individuale, troppo spesso causa di un disagio psichico che resta inascoltato, che individualizza ed esclude le persone dal proprio tessuto sociale». C’è una camera del lavoro inaugurata volutamente il 1 maggio 2015; nell’assemblea che ne segue un attivista dichiara: «Vogliamo che questo luogo sia aperto alla comunità, il lavoro non è un tema di qualcuno ma di tutti. Noi speriamo che da oggi inizi un percorso che tra 20-30 anni ci racconteremo come un pezzo di storia rivoluzionaria di questa città». È stato risistemato un campetto che adesso ospita la scuola calcio “Popolare Materdei”: i due allenatori ci tengono a dire che «un progetto simile ha lo scopo principale di tirare fuori i ragazzi dalla strada e dal rischio criminalità».Al centro del muro al lato del campetto sono raffigurati i volti di Maradona e di Che Guevara con la scritta «ama il calcio odia il razzismo». V. racconta che «un bambino del calcetto chiese chi era quello a destra di Maradona e un altro bambino gli rispose ‘quello è il tatuaggio di Maradona’».
Spazi finalmente aperti, disponibili, riempiti ogni giorno da gente di tutte le età come Federica, 16 anni, che dice di venire qui insieme ai suoi compagni ogni mercoledì «per fare assemblea, parlare delle cose del quartiere e dei problemi della scuola». Attivisti e volontari fanno del loro meglio per cancellare le tracce dell’istituzione totale, ricoprendo le pareti dei chiostri o la zone delle “ore d’aria” con murali o frasi evocative. La struttura è molto grande, distribuita su più livelli. All’ingresso della sala d’accoglienza sotto i manifesti che riportano le iniziative del collettivo, attraverso il vetro della vecchia guardiola sono ancora visibili due monitor per la videosorveglianza. Attraversando il primo cortile, in fondo a un corridoio c’è ancora un murale fatto dagli internati, poi una porta con delle sbarre e le scale per il primo piano. Qui è tutto mura e ferro. Tutto diventa cupo e inquietante: qui sono le celle, questa è la macchina che fagocita menti devianti, usata dal 1923 dal fascismo italiano come strumento di controllo sociale.
In questa storia si innesta l’impegno del collettivo Je So Pazzo! per costruire percorsi di memoria attraverso immagini, dibattiti e testimonianze scritte, su ciò che era questo posto e chi vi era recluso. Nel giorno dell’anniversario dell’occupazione dell’ex Opg un’attivista ricorda: «Quando siamo entrati qua dentro lo slogan che utilizzavamo era ‘dove c’era prigione faremo libertà’, oggi probabilmente possiamo anche concederci di usare diversamente questo verbo: dove c’era prigione noi abbiamo fatto libertà».
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