by Dimitri Bettoni, il manifesto | 21 Marzo 2017 9:31
Istanbul. Mandare in Europa 15.000 migranti al mese, questa la minaccia del ministro dell’interno turco Süleyman Soylu; per punire l’Europa dopo la querelle diplomatica sui ministri turchi respinti e la mancata liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi. Far saltare l’accordo Ue-Turchia sui migranti continua ad essere l’arma frutto delle paure e delle miserie europee che Ankara minaccia di usare, ma la realtà ci dice altro.
I flussi dalle zone di Siria e Iraq dove ancora c’è guerra si fermano oggi prima della frontiera turca. I civili in fuga dalle città come Mosul o dalle campagne nei dintorni di Raqqa cercano riparo nelle strutture improvvisate nelle regioni circostanti o in insediamenti considerati per il momento sicuri.
Rispetto alle politiche di confine aperto che Ankara poteva vantare fino a meno di due anni fa, oggi il confine meridionale è sorvegliato dall’esercito, che di recente ha anche aperto il fuoco su chi cercava di varcare le recinzioni. Ma la perdita di attrattiva della Turchia non è data solo dalle nuove politiche di controllo dei confini. L’instabilità interna di un paese percorso da violente tensioni politiche ed etniche è un altro fattore deterrente, unito alla sensazione che il paese sia ormai al massimo della sua capacità ricettiva. Secondo l’Unhcr sono 2,900,000 i soli rifugiati siriani presenti in Turchia, a cui si aggiungono 350.000 da altri paesi. Le autorità turche riferiscono che non ci sarebbero ulteriori richieste di registrazione in attesa di essere elaborate, segno che i flussi ancora presenti sono di transizione e il paese non rappresenta al momento una destinazione gradita.
Lavoro e integrazione rappresentano la sfida in un’economia che, a seconda dei metodi statistici adottati, vede un sommerso pari al 25-37% del Pil. La forza lavoro dei migranti si è incanalata soprattutto verso l’impiego in nero, in particolare nei settori dell’edilizia e dell’agricoltura. Nessun successo ha avuto il tentativo del governo turco di rilasciare, a partire da gennaio 2016, permessi di lavoro: 750,000 i rifugiati che si stima lavorino nel paese, solo 7000 le richieste.
A creare problemi non solo il costo di rilascio del documento, circa 150 euro, e le difficoltà burocratiche, di formazione e linguistiche: una volta ottenuto il permesso al lavoratore deve essere garantito il salario minimo legale. Il lavoratore migrante con permesso regolare finisce quindi per perdere vantaggio rispetto al lavoratore locale, a cui i datori di lavoro tornano a rivolgersi: per sopravvivere meglio l’illegalità. L’unica reale opportunità d’impiego regolare per i migranti siriani sono le aziende aperte dai loro connazionali, circa 5000 secondo le ultime stime della camera di commercio turca.
La possibilità di ottenere un permesso di lavoro regolare era uno dei cavalli di battaglia della politica europea favorevole all’accordo tra Ue e Turchia.
Accordo che, inaugurato oltre un anno fa, prevedeva un meccanismo di scambio, un migrante regolarizzato verso l’Europa per ogni migrante bollato come illegale e rispedito in territorio turco, e che semplicemente non funziona. Le macchine burocratiche non comunicano tra loro e soltanto 3,565 migranti hanno lasciato la Turchia verso i paesi europei, mentre per i migranti rispediti in Turchia dalla Grecia (748 a fine dicembre) l’Unhcr ha lamentato la difficoltà per i propri operatori ad accedere alle strutture in territorio turco e l’assenza di cooperazione da parte delle autorità.
Resta infine da capire se i rifugiati, che da cinque o sei anni cercano di ricostruirsi una vita in Turchia, avranno davvero voglia di abbandonare tutto un’altra volta e rispondere alla chiamata dei 15.000, solo per accontentare il governo turco.
SEGUI SUL MANIFESTO[1]
Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2017/03/91413/
Copyright ©2024 Diritti Globali unless otherwise noted.