Regno Unito, arriva il giorno X: il 29 marzo via alla Brexit

Regno Unito, arriva il giorno X: il 29 marzo via alla Brexit

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LONDRA. Da inquilino modello, la Gran Bretagna ha dato puntuale la disdetta del contratto d’affitto. Il prossimo mercoledì, 29 marzo, Theresa May metterà in moto il recesso volontario e unilaterale della Gran Bretagna dall’Unione Europea, previsto dall’Articolo 50 del trattato di Lisbona, secondo la volontà popolare espressa dal referendum dello scorso giugno, risultato in un 51.1% a favore dell’uscita. E a Roma, per celebrare questa settimana il sessantesimo anniversario della nascita di quella che sarebbe diventata l’Unione, la premier britannica – neanche a dirlo -, non ci sarà.

Tim Barrow, l’ambasciatore britannico presso l’Ue, ha preallertato Donald Tusk delle intenzioni di Londra. Questi ha risposto che il governo britannico riceverà la replica ufficiale dell’Unione entro 48 ore. L’annuncio è stato dato soprattutto per evitare probabili terremoti sulla sterlina scatenati da un annuncio a sorpresa, dopo una legge passata controvoglia e in tutta fretta al parlamento, dove i Lord avevano cercato di sgambettarla. Ma anche per evitare che la data cadesse il primo di aprile, con tutti gli immaginabili inconvenienti del caso. Né ci saranno elezioni anticipate a inizio maggio, come si era speculato diffusamente negli ultimi giorni: Theresa May intende tirare dritta fino alla fine della legislatura, nel 2020.

Sempre mercoledì 29, May invierà una missiva al Consiglio d’Europa che notificherà l’inizio delle trattative. L’annuncio è stato dato ieri mentre la premier è in giro per visitare entro quella data le nazioni devolute che compongono il paese – ieri era in Galles, seguiranno Irlanda del Nord e Scozia – per cercare di evitare che l’Union Jack, la bandiera nazionale, perda la croce di S. Andrea, simbolo della Scozia. Un frenetico tour promozionale per far baciare il rospo Brexit a chi non ne vuole sapere – soprattutto gli scozzesi appunto e i nord-irlandesi – promettendo che si trasformerà in principe, con tanta prosperità e autodeterminazione per tutti. Soprattutto dopo che i ferri con Edimburgo si sono ulteriormente accorciati, con l’annuncio da parte della premier Nicola Sturgeon di voler metter in moto l’avanzata della Scozia verso un nuovo referendum indipendentista, dopo che a giugno il paese si era espresso per il 62% a favore della permanenza nell’Ue.

Inizierà così il trasloco più lungo della storia: non solo perché è assai probabile che la complessità bizantina delle trattative sforerà i due anni previsti dall’articolo stesso per la durata del negoziato, ma anche perché non si conosce ancora esattamente il nuovo indirizzo del locatario, in altre parole il «posto della Gran Bretagna nel mondo», come commentò il segretario di stato americano Dean Acheson dopo il pastrocchio di Suez. Le incognite sono molteplici, nonostante i toni baldanzosi dei leavers. Ci si avventura in acque sconosciute, giacché l’uscita di un paese membro non ha precedenti.

A spaventare è soprattutto l’immenso output legiferante di cui il parlamento dovrà farsi carico per soppiantare le leggi europee: uno sforzo esorbitante che sottrarrà tempo ed energie all’attività legislativa interna. La definizione che ne ha dato il Brexit Secretary David Davis, «è il negoziato più importante nella storia di una generazione», suona, insomma, eufemistica. E se i leader del business ci tengono affinché tutto duri il meno possibile per evitare sconquasso economico, i politici europei intendono farne un caso esemplare, imponendo termini draconiani in modo da scoraggiare l’effetto domino di altre possibili defezioni. Almeno a sentire il presidente dell’Ue Juncker: «Nessuno vorrà lasciare l’Unione dopo la Gran Bretagna». Uomo avvisato.

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