by Ivan Cavicchi, il manifesto | 14 Marzo 2017 9:39
Il ritorno delle mutue è un fenomeno di “falsa coscienza”, come una ideologia di ritorno. Da una parte le imprese le rappresentano come uno speciale diritto acquisibile con il lavoro perché salario demonetizzato e defiscalizzato. Dall’altra chi lavora le usa come privilegio rompendo i suoi rapporti di solidarietà con la sua storia e una intera società.
Questa “falsa coscienza” si poggia saldamente su un pactum sceleris tra i governi di centro sinistra che si vogliono sbarazzare della sanità pubblica e la grande speculazione privata (assicurazioni, intermediazione finanziaria, sanità privata) che vuole spartirsi un immenso mercato. I lavoratori, i loro contratti, i sindacati, spiace dirlo, in questa partita appaiono semplicemente come gli “utili idioti” di leniniana memoria, che assecondano una ingiustizia sociale, convinti di fare un affare perché giustificati da una sanità pubblica che, non a caso, proprio in questi anni sta crollando. La storia è quella di un sistema di tutela, le mutue per l’appunto, che crolla sotto il peso dei suoi debiti o meglio a causa delle sue intrinseche contraddizioni.
A partire dal secondo dopoguerra cambiano i bisogni di salute della gente, cambiano soprattutto i soggetti di salute e cambia l’idea stessa di tutela. Entrano in scena i diritti mentre il progresso scientifico mette a disposizione nuove tecnologie, nuovi farmaci, nuovi trattamenti e sempre maggiori opportunità di cura. Infine lo scambio contributi/prestazioni quindi il tipico sistema di finanziamento delle mutue.
Come è andata? Alla crescita della domanda si risponde adeguando l’offerta di prestazioni perché sarebbe stato antisociale restare indifferenti al progresso, ma, a sistema contributivo sostanzialmente invariante, perché sarebbe stato irrealistico sottrarre al salario più di quello che lo stesso salario avrebbe potuto permettersi.
Risultato? E’ bastato mezzo secolo a far crollare tutto. Qual è la lezione?
La domanda di cura e l’offerta di servizi in un sistema mutualistico hanno una inevitabile natura incrementale, cioè tendono a crescere non a diminuire, in modo tale da rendere il sistema intrinsecamente insostenibile. Cioè le mutue tendono all’insostenibilità a meno di voler inseguire la crescita della spesa sottraendo al salario quantità contributive crescenti.
A questa situazione nel 1978 si rispose con una riforma che avrebbe dovuto:
Le cose, dopo ben tre riforme (78/92/99), sono andate storte: non abbiamo prodotto più salute, le malattie sono aumentate, la spesa sanitaria è cresciuta, i salari sono stati a loro volta tagliati (ticket, imposizione locale, out of pocket, ecc) e l’universalismo negato dai grandi squilibri regionali e da crescenti diseguaglianze.
Conclusione: i grandi problemi di insostenibilità ereditati dalle mutue sono rimasti insoluti anzi si sono ulteriormente esacerbati autorizzando così le peggiori politiche di contenimento della spesa (tagli lineari, piani di rientro, de-finanziamento).
Tutto ciò non perché le riforme, nonostante le loro aporie, fossero irrealizzabili, ma solo perché, soprattutto la sinistra, convinta che basti amministrare meglio il mondo per cambiarlo, ha creduto di fare le riforme senza un pensiero riformatore, come se rispetto alla sostenibilità bastasse riordinare, riorganizzare, migliorare il sistema, renderlo un po’ più efficiente.
E ora? Abbiamo una super mutua nazionale ad insostenibilità finanziaria crescente da fare a pezzi con il pactum sceleris, un sindacato che abbocca all’amo del welfare aziendale anziché mettersi alla testa di un nuovo movimento riformatore per dare attuazione alle sue conquiste sociali (la quarta riforma).
Oggi abbiamo uno scriteriato governo di centro sinistra che garantisce con la defiscalizzazione l’abbrivio al neo-mutualismo, ma domani, anche grazie ad un ingresso massiccio dell’innovazione di ultima generazione, crescerà ancor di più domanda e offerta, dove prenderemo i soldi?
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