Etiopia. Le vittime della carestia in fuga dalla guerra in Sud Sudan

Etiopia. Le vittime della carestia in fuga dalla guerra in Sud Sudan

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GAMBELA ( ETIOPIA). Pochi giorni fa, prima che qualcuno riuscisse ad accopparlo, un grosso cobra ha ucciso cinque persone. Al campo profughi etiope di Nguenyyiel, vicino al confine con il Sud Sudan, manca perfino l’acqua, figuriamoci il siero anti-veleno, anche se la radura dove sono state disposte le tende pullula di serpenti dal morso mortale. Già, ma da dove vengono i sud-sudanesi c’è forse un male più spaventoso, e sicuramente più mortifero: la carestia. In questi giorni, le agenzie delle Nazioni Unite hanno dichiarato che centomila persone stanno morendo di fame in un Paese ancora insanguinato da una guerra civile a sfondo tribale e adesso funestato anche dalla mancanza di cibo. «Nel mio villaggio non piove da due anni, e tutte le capre sono morte. Dopo di loro, hanno cominciato a morire i bambini, poi gli anziani. A quel punto, con la mia famiglia abbiamo deciso di fuggire verso l’Etiopia», dice Thakdek Hem, un ventenne di etnia Nuer, quella nemica dei Donka, di cui sono composte le feroci milizie governative. «È vero, in questo campo manca spesso l’acqua e se ti ammali muori, ma almeno è possibile trovare un po’ di cibo».

A Nguenyyiel sono arrivati nelle ultime settimane 30mila profughi sud-sudanesi, e visto che la totale carenza di strutture sanitarie non li spaventa, altri 50mila dovrebbero arrivarne entro il mese prossimo. Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), l’Etiopia sta diventando il Paese che accoglie il maggior numero di profughi in Africa: sono già 670mila, di cui più della metà sud-sudanesi e per il resto somali ed eritrei. Alcuni fuggono dalla guerra o da feroci regimi autoritari. Altri, dalla carestia provocata da quella che l’Onu considera la più grave siccità degli ultimi cinquant’anni, che ha già decimato il bestiame e che sta cominciando a falciare vite umane. Se nel Sud Sudan i disastri della siccità sono amplificati dai combattimenti, in altre regioni lo sono dalla mancanza d’infrastrutture, o meglio, da una cronica povertà. L’emergenza riguarda il Corno d’Africa, compresa questa e altre regioni dell’Etiopia, ma anche la Somalia, l’Eritrea, lo Yemen e il nord del Kenya. Il campo di Nguenyyiel è l’ultimo degli otto approntati dall’Unhcr per aiutare chi proviene dal Sud Sudan. È stato costruito lo scorso novembre, nel mezzo di una foresta arida e lontana da tutto, dove simili a giganteschi dolmen si ergono tanti massi nerastri. «Sono attesi molti altri profughi, ma nella tenda che funge da ospedale ci sono solo tre letti senza materassi e in quella per i parti c’è un solo lettino», dice Matteo Bottecchia, 32 anni e rappresentante in Etiopia dell’ong padovana “Cuamm Medici con l’Africa”, che nella vicina Gambela sta per avviare un progetto di supporto alle strutture sanitarie locali e un altro di fornitura di materiale medico e di formazione di personale sanitario negli stessi campi profughi.
Quanto alla Somalia, la siccità ha già ucciso decine di migliaia di cammelli, asini e capre, e devastato milioni di ettari di piantagioni di caffè e di teff, il grano locale. Le sue altre vittime sono i bambini più piccoli, molti dei quali già soffrono di malnutrizione acuta. Li abbiamo visti al Saint Luke Catholic Hospital di Wolisso, a tre ore di macchina da Addis Abeba e a tre secoli dalla modernità, nella regione rurale dell’Oromia, dove nel 2016 le proteste indipendentiste contro il regime hanno provocato decine di vittime. Quando arrivano in ospedale, questi piccoli non mangiano, non giocano e neanche piangono. Hanno le gambe gonfiate dalle dermatiti, e la pelle pende sulle loro braccine smagrite. Alcuni di loro hanno anche due anni, ma gliene daresti la metà. «Fino a quell’età sono stati nutriti esclusivamente dal latte materno, da madri che sono loro stesse malnutrite e spesso stremate dal lavoro nei campi o magari dalla gestione di altri dieci figli», spiega la pediatra Marta Lusiani, 33 anni, anche lei dell’ong Cuamm che fornisce personale medico specializzato al Saint Luke, un ospedale che con 14.700 ricoveri e 3.600 parti l’anno scoppia di pazienti. Nel reparto che dirige la Lusiani, 24 dei 65 letti sono destinati ai bimbi denutriti. E questi sono sempre tutti occupati. Dice ancora la pediatra: «Dobbiamo spesso nutrirli con un sondino perché all’inizio rifiutano ogni tipo di cibo. Ci vogliono almeno due settimane per capire se ce la faranno. Poi, al primo sorriso capisco che il bimbo ha svoltato. Purtroppo molti non riusciamo a salvarli. E quello che vediamo qui è solo la punta dell’iceberg ».
Secondo l’Unicef sono 10,2 milioni gli etiopi che hanno un urgente bisogno di aiuti alimentari, e nell’anno in corso potrebbero diventare 18 milioni, ossia un etiope su 5. Eppure, al potere da 25 anni, l’attuale governo sembra aver imparato a fronteggiare sia pure in modo frammentario e insufficiente la vulnerabilità del suo Paese. Tutto ciò ha finora impedito che si ripeta quanto accadde nel 1984, quando a causa di una siccità simile a quella attuale morirono di fame centinaia di migliaia di etiopi. All’epoca, davanti alle immagini di quella catastrofe umanitaria si mobilitarono in tanti, non ultimo Bob Geldof che organizzò un concerto allo scopo di ricavare fondi per alleviare la carestia, creando uno dei più grandi eventi rock della storia. Oggi non ci sono fenomeni analoghi, il flagello che ferisce questa regione d’Africa è totalmente ignorato dal pianeta. Intanto, per attirare capitali stranieri, il governo di Addis Abeba vanta indici di crescita da primato e lancia megaprogetti industriali per modernizzare il Paese. Non può perdere la sfida contro la siccità, anche al costo di elemosinare aiuti dalla Cina. Basteranno questi aiuti? Secondo Save The Children, la risposta della comunità internazionale è ancora molto al di sotto dei bisogni delle popolazioni colpite. Come dimostrano i bimbi di Wolisso e quelli di Nguenyyiel.

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