Piano Calenda, ottomila operatori rischiano
Un piano per creare 20 mila nuovi posti nei call center. O meglio, per far «rientrare» 20 mila postazioni dall’estero, dopo anni di delocalizzazioni selvagge. A pochi mesi dal tragico Natale Almaviva (1.666 licenziati) e dall’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, il «Protocollo Calenda» annunciato ieri da Repubblica potrebbe sembrare un grande toccasana per il settore, con il vantaggio di fugare le pulsioni populiste ormai dilaganti tra precari e lavoratori (l’America first si tradurrebbe in Italy first, ma finalmente made in Gentiloni). L’uovo di Colombo? Manco per idea: l’opposizione – Cinquestelle in testa – già lo boccia come «misura spot», ma è soprattutto la Cgil a mettere in guardia. Il piano, come ci spiega il segretario di Roma e Lazio Michele Azzola in una intervista al manifesto, potrebbe avere l’effetto contrario, ovvero spingere a delocalizzare chi finora non l’ha mai fatto – Eni, Enel, Poste, Trenitalia – portando così a una ulteriore emorragia di 8 mila posti.
COSA PREVEDE il protocollo Calenda? Il ministro dello Sviluppo economico ha scritto una bozza di accordo da siglare con i grandi committenti – alcuni a controllo pubblico – per spingerli a «garantire che il 100% delle attività di call center svolte per il mercato italiano in via diretta sia effettuato sul territorio nazionale e che almeno l’80% dei volumi delle attività di call center affidati in outsourcing provenga dall’Italia». Il conto è presto fatto: se è vero che circa 25 mila lavoratori sono impiegati in Romania, Albania, Polonia, Croazia, Tunisia, Marocco su servizi per il mercato italiano – come spiegava ieri Repubblica – ne discende che almeno l’80% dovrà rientrare, e quindi siamo ai 20 mila nuovi posti riguadagnati al mercato italiano (la Cgil, però, parla di una trattativa per scendere dall’80% al 75%, autorizzando quindi il 25% di posti esteri).
Ancora, chi firmerà il protocollo dovrà impegnarsi a seguire le seguenti regole, sempre invocate dal sindacato e perfino dalle stesse aziende di outsourcing a tutela di un mercato corretto ed equilibrato: «Non effettuare aste al massimo ribasso, ma adottare il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa per l’assegnazione dei servizi in outsourcing; fare riferimento per gli affidamenti esterni a un costo medio del lavoro su base oraria definito dal decreto legislativo numero 50 del 2016, dunque il minimo contrattuale, ovvero sulla base di accordi con i sindacati; applicare nei propri contratti di outsourcing la “clausola sociale” e dunque garantire la continuità occupazionale sul territorio nei casi in cui il call center perda la commessa e l’azienda che subentra non sia disposta a mantenere tutti i posti di lavoro».
AFFERMAZIONI TUTTE condivisibili sul piano ideale, ma il «Protocollo Calenda» contiene almeno due maxi problemi: 1) il governo avalla per la prima volta l’ok a delocalizzare, perché se ti impegni a lasciare in Italia almeno l’80% delle produzioni, vuol dire che sei autorizzato a portare all’estero l’altro 20%; 2) è solo moral suasion, non essendo previsti obblighi di legge o sanzioni.
Lo notano le stesse imprese che offrono servizi di call center in outsourcing, associate in Assocontact Confindustria: «Non sono previsti parametri vincolanti o precisi su come erogare i servizi, né obblighi per le aziende a essere in regola con il Durc e dunque a pagare i contributi ai lavoratori, o ad avere un sistema di certificazione di qualità – commenta il presidente di Assocontact Paolo Sarzana, sempre su Repubblica – Senza paletti chiari e inequivocabili, lo sforzo apprezzabile del ministro rischia di trasformarsi in una moral suasion generica». «È auspicabile – conclude Sarzana – che dal Protocollo si passi a una vera riforma del settore, una legge che obblighi tutti a rispettare regole più stringenti».
BOCCIATURA DA PARTE dai deputati Cinquestelle: «L’annuncio di un possibile rimpatrio per 20 mila posti è supportato dal nulla: non c’è alcun divieto di gare in subappalto né ammortizzatori sociali strutturali». Un «finto interessamento per il comparto che è grottesco, dopo che si sono incoraggiate le delocalizzazioni con soldi pubblici: vedi il caso di Simest, società della Cassa depositi e prestiti, che ha messo sul piatto sei milioni per entrare nel capitale di Almaviva do Brasil».
«Il piano è inefficace» secondo la Slc Cgil, mentre Fistel Cisl e Uilcom apprezzano. E la Cgil, nell’intervista al segretario Michele Azzola, ci spiega proprio il caso Simest-Almaviva: e chiede «chiarimenti urgenti» all’azienda e al governo.
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