8 marzo. Donne in marcia contro violenza e discriminazioni

8 marzo. Donne in marcia contro violenza e discriminazioni

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Dall’edizione 2014 del Rapporto sui diritti globali pubblichiamo qui alcuni materiali sui diritti delle donne. L’occasione è la Giornata internazionale della donna dell’8 marzo 2017 e dello sciopero globale delle donne,  organizzato in circa quaranta paesi del mondo  da Women’s March. In Italia l’iniziativa è stata lanciata  e sostenuta dalla Rete Non Una Di Meno, che ha centrato la mobilitazione su otto punti per ribadire, anche attraverso lo sciopero, il rifiuto della violenza di genere in tutte le sue forme: oppressione, sfruttamento, sessismo, razzismo, omo e transfobia.

Per la Rete delle donne, una risposta efficace alla violenza maschile non si realizza con l’inasprimento delle pene ‒ come propone la legge in discussione alla Camera che prevede l’ergastolo per gli autori dei femminicidi ‒ ma con una trasformazione radicale della società.

L’8 marzo si interromperà dunque ogni attività produttiva e riproduttiva. La protesta, che prevede modalità differenti, durerà 24 ore.

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INDAGINE EUROPEA SULLA VIOLENZA DI GENERE

L’Agenzia europea per i diritti fondamentali ha condotto un’indagine sulla violenza contro le donne in Europa che, nel suo genere, è la più grande a livello mondiale.

L’indagine ha richiesto tre anni ed è stata presentata il 2 aprile 2014 al Parlamento Europeo, nel corso della riunione interparlamentare “Violenza sulle donne – Una sfida per tutti”.

Essa si basa su 42 mila interviste “faccia a faccia” condotte in tutti i 28 Paesi dell’UE. In media, in ogni Stato membro sono state condotte 1.500 interviste, fatta eccezione del Lussemburgo dove sono state 900.

L’attenzione è stata riportata sugli atti di violenza subiti dalle donne in casa, sul lavoro, in ambito pubblico e in Internet, nelle diverse fasi della loro vita.

Il 5% delle donne intervistate ha dichiarato di essere stata vittima di stupro. Quasi una donna su 10 che hanno subito violenza sessuale da una persona diversa dal loro partner, ha indicato che nell’episodio di violenza più grave subito erano coinvolti più aggressori.

Il 43% ha subito violenza psicologica da un partner precedente o attuale: umiliazione pubblica, obbligo di non uscire, costrizione alla visione di materiale pornografico, minacce di violenza.

Il 33% ha vissuto episodi di violenza fisica o sessuale nel corso dell’infanzia a opera di un adulto. Il 12% ha vissuto esperienze di violenza sessuale durante l’infanzia e la metà da parte di uomini che non conoscevano. Queste forme di violenza in genere coinvolgono adulti che mostrano i propri genitali o toccano le parti intime della bambina.

Il 18% delle donne ha dichiarato di essere stata vittima di comportamenti e atti persecutori, come lo stalking, dall’età di 15 anni e il 5% nel corso dei q2 mesi precedenti l’intervista. Il 21% che ha subito lo stalking ha dichiarato che tale comportamento si protratto oltre due anni.

L’11% delle donne ha subito avances inopportune sui social network, oppure ha ricevuto messaggi di posta elettronica o SMS con riferimenti sessuali espliciti. Il 20% delle donne tra 18-29 anni è stata vittima di violenza online.

Il 55% delle donne ha subito una qualche forma di molestia sessuale. Il 32% di tutte le vittime di molestie sessuali ha dichiarato che l’autore era un superiore, un collega o un cliente.

Il 67% non ha denunciato alla polizia o ad altre organizzazioni l’episodio di violenza più grave subito dal partner.

Analizzando i dati per singole nazioni, si riscontra che i Paesi in cui si registrano le percentuali maggiori di violenza non sono quelli tradizionalmente considerati “machisti”, ma la Danimarca (52%), la Finlandia (47%) e la Svezia (46%): vale a dire, un’area che occupa le posizioni di vertice nell’indice del gap di genere elaborato dal World Economic Forum. A voler dimostrare, ancora una volta, che le indicizzazioni sono una cosa e la realtà un’altra.

Come fa rilevare l’indagine, la violenza di genere deve riuscire a transitare dalle vittime alla società intera, perché è questa a essere chiamata in questione. Viene, inoltre, richiesta una visione critica di come la società intende affrontare questo abuso, dandogli corretta soluzione. Ma anche l’UE è direttamente chiamata in causa, per varare misure e strategie efficaci per combattere la violenza contro le donne.

Ha dichiarato Morten Kjaerum, direttore dell’European Union Agency for Fundamental Rights (FRA): «I dati di questa indagine non possono e non devono essere ignorati. L’indagine della FRA mostra che la violenza fisica, sessuale e psicologica contro le donne è una violazione dei diritti umani diffusa in tutti gli Stati membri dell’UE. L’entità enorme del problema evidenzia che la violenza contro le donne non si ripercuote solo sulla vita di alcune di esse, ma incide ogni giorno sulla società nel suo complesso. Pertanto, i responsabili politici, la società civile e gli operatori attivi in prima linea sono tenuti a rivedere le misure volte a contrastare tutte le forme di violenza contro le donne, ovunque esse avvengano. Dall’indagine emerge la necessità di rafforzare le misure esistenti per contrastare la violenza contro le donne».

 

Fonte: FRA (2014 a; 2014 b).

 

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NOTIZIE MINIME SUL FEMICIDIO IN ITALIA

Secondo l’annuale ricerca della Casa delle donne, in Italia, nel 2013 i femicidi sono stati complessivamente 134, mentre nel 2012 erano stati 126. In totale, dal 2005 al 2013, le donne uccise sono state 1.042. La media annua del periodo segna 116 casi per anno. Bisogna, però, ricordare che i dati sono sottostimati, in quanto la ricerca si basa esclusivamente sui casi riportati sulla stampa.

Analizzando il dato, scorporandone alcune componenti interne, si rileva che, nel 2013, su 134 casi di femicidi 13 erano donne costrette alla prostituzione. Nel 2012, su 126 casi 14 erano state costrette ala prostituzione.

Un altro fenomeno che merita attenzione sono i tentati femicidi, intendendo per essi episodi di estrema violenza in cui il bene della vita della donna è stato messo a estremo rischio. Nel 2013, i tentati femicidi sono stati 83. Di questi, in 39 casi la vittima era di nazionalità italiana (47%); in 22 casi era straniera(26,5%); in 22 casi la nazionalità non era determinabile (26,5%).

Altro dato di interesse è la relazione tra vittima e autore del delitto. In 38 casi l’autore è stato il partner attuale della vittima (46%); in 19 casi l’ex partner della vittima (23%); in 21 casi sussisteva un’altra relazione (25%); in 5 casi non era determinabile (6%).

La distribuzione per area geografica dei femicidi è stata la seguente: Nord 37 casi (45%); Centro 18 casi (22%); Sud e Isole 38 casi (33%).

Ma, al di là delle cifre pur sempre importanti, sul femicidio rimangono da colmare vuoti conoscitivi e ritardi culturali. Va, comunque, segnalato che ad agosto 2013 è stato approvato un decreto sul femicidio, poi convertito in legge a ottobre (legge n. 119/2013).

 

Fonte: Casa delle donne (2014).

 

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VISIONI AL FEMMINILE

Una visione al femminile della storia e della società pone in discussione l’economia politica dello sviluppo e, ancora di più, quella della crescita, incentrata sul PIL che, suo malgrado, può essere assunto come indice di espressione di disuguaglianze e ingiustizia in aumento. Non ci occupiamo qui dell’economia femminista, un fiorente filone di studi almeno dagli anni Novanta; ma di visioni al femminile sul mondo.

I luoghi comuni sulle donne

Queste visioni impattano contro luoghi comuni incrostati: sia nel senso che si trovano a fronteggiare realtà stratificate da secoli, sia nel senso che devono aggirare credenze, tradizioni, saperi e pretese verità neutrali che si rivelano essere delle catene attaccate ai piedi delle donne. Cerchiamo di vedere quali sono i più nocivi di questi luoghi comuni che, poi, sono dei veri e propri postulati di certezze inamovibili.

Il primo luogo comune: la dipendenza delle donne dagli uomini. Il postulato fissa in eterno il carattere di dipendenza delle donne dai padri, dai mariti e dai compagni che provvedono ai loro bisogni di base. In quanto dipendenti da maschi, non sono necessarie alla produzione della società e, quindi, sul lavoro “devono” avere retribuzioni più basse di quelle dei maschi. Questo è uno degli effetti letali della visione maschile della donna e del mondo e una delle conseguenze più perniciose della logica maschile di impossessamento del mondo.

Il secondo luogo comune: famiglia classica intesa come unità economica di base. Lo schema della dipendenza delle donne trova qui uno delle sue traduzioni materiali migliori: il padre guadagna, la madre accudisce (lavoro di cura non riconosciuto), i figli dipendono. I meccanismi seriali della dipendenza si concatenano, anche nel senso che allargano la presa incatenante dei loro dispositivi di controllo. Non per questo, tale unità di base è stata risparmiata dalle politiche recessive e dai tagli alla spesa sociale che si sono affermati con la crisi globale; anzi.

Il terzo luogo comune: improduttività economica delle donne. Se il regno delle donne è l’economia domestica, ne discende che sono economicamente improduttive. L’improduttività è qui collegata al fatto che le loro prestazioni e i loro servizi non sono collegati/collocati sul mercato in termini di vendita ed estrazione di profitto. Questa politica di scarto selettivo delle donne ha consentito, tra l’altro, di sottostimare i costi della produzione. Più questi sono sottostimati, più la produzione economico-sociale delle donne viene negata.

La realtà, ovviamente, è molto diversa e, qualche volta, agli antipodi di questi schemi di interpretazione. Vandana Shiva, per esempio, ha mostrato che il ruolo delle donne nella protezione e salvaguardia dell’ambiente e delle risorse naturali della terra è stato ed è rilevante. Da questo punto di vista, certamente l’azione/decisione delle donne è stata più utile e, a lungo termine, economicamente più produttiva della domanda surdeterminata dal mercato, viziata in radice dalle logiche maschili del profitto immediato. L’emarginazione primordiale delle donne ha generato paradigmi e azioni caratterizzati dalla cecità assoluta: loro, sì, improduttivi e autoreferenziali.

La sovversione dei generi

La messa in questione della logica duale maschile/femminile conduce, inevitabilmente, a sospendere il dualismo costitutivo con cui è stato pensato e organizzato il rapporto uomo/donna, col primo termine che compare come elemento dominante e che costruisce intorno al (suo) sesso il (suo) ruolo di agente decisionale assoluto. Come ci mostra Edith Butler, sono i divieti e il potere di vietare che costruiscono le narrazioni dei generi in maniera dicotomica. La questione del genere, più propriamente, implica la sovversione dei generi, pensati e agiti nella loro irripetibile trasfusione conflittuale.

Una visione al femminile come non ammette come unico e dominante lo sguardo dell’uomo, così non ambisce a ritagliare allo sguardo delle donne il dominio univoco di vedere il mondo. Nessun sesso può parlare a nome dell’altro; ma i sessi si parlano, scontrano e riattraversano, componendo e ricomponendo l’architettura mobile dello stare del mondo e del loro stare nel mondo. All’interno del medesimo sesso nessuna donna può parlare a nome di un’altra donna, così come nessun uomo può parlare a nome di un altro uomo

C’è un punto, grazie ai contributi di Judith Butler, indietro dal quale non possiamo retrocedere: non possiamo più scambiare per realtà assoluta e intrascendibile le norme di regolazione sessuale che pendono sulle nostre teste. Un conto sono le norme e le teorie; un altro è la realtà mossa e sfuggente dentro cui siamo collocati e ci collochiamo. Le visioni al femminile servono proprio a questo: farci risalire dalle norme e dai divieti fino alla realtà, così come va emergendo e stratificandosi. E, dunque, un carattere maschile e uno femminile, in quanto tali, non esistono “naturalisticamente”, ma sono un costrutto logico, linguistico, simbolico e politico. Con essi, certo, dobbiamo fare i conti; ma a essi non dobbiamo soggiacere. V’è, appunto, una sovversione dei generi da compiere che è cosa ben diversa dall’eliminazione dei generi.

 Fonti: Butler, 2013 a; 2013 b; Di Rienzo, 2013; Shiva, 2012; 2014.

 

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LE DISPARITÀ DI GENERE. UNO SGUARDO SUL GLOBAL GENDER GAP

Dal 2006, ogni anno, il World Economic Forum cura il Rapporto sul Global gender gap, che analizza la disparità di genere in 136 Paesi e sulla base di quattro indicatori fondamentali: a) partecipazione economica e opportunità; b) istruzione e formazione; c) salute e sopravvivenza; potere di rappresentanza politica.

La somma dei vari indici di classificazione misura la differenza di genere. Se il valore complessivo è pari a uno, vuol dire che tra uomini e donne c’è la parità assoluta; se, invece, è pari a zero, c’è la disparità assoluta. In nessuno dei Paesi presi in considerazione, nemmeno i primi in classifica, c’è la parità assoluta, poiché sommando tra di loro i vari sotto-indici si ottiene sempre un valore inferiore a uno. Dunque, anche nei Paesi in cui il gap di genere è contenuto, gli uomini risultano essere avvantaggiati. Una conferma indiretta di questo fatto è data anche dalla tendenza generale che, sempre secondo il Rapporto del World Economic Forum, vede il gap di genere assottigliarsi lentamente nel tempo.

Meno gap nel Nord Europa

I Paesi del nord Europa si sono confermati quelli i più paritari. Ecco i loro gap di genere, in ordine di classificazione: a) l’Islanda è stata per il quinto anno consecutivo il più paritario, con un indice pari a 0,873; b) la Finlandia si è collocata al secondo posto con un indice pari a 0,842; c) la Norvegia è al terzo posto con lo stesso indice di 0,842; d) la Svezia è al quarto con un indice pari a 0,813.

Quelli con la maggiore disparità di genere sono stati il Pakistan (indice pari a 0,546) e lo Yemen (0,513). Un notevole balzo in avanti l’ha compiuto il Senegal, passando dal 90° posto al 67° (indice pari a 0,692). In Finlandia, Svezia, Irlanda, Olanda, Germania, Moldavia e Portogallo, rispetto al 2012, la differenza di genere è aumentata.

Passando a valutazioni più generali, possiamo dire che l’Islanda mantiene il primo posto, grazie ai continui miglioramenti nella partecipazione e nell’opportunità economica, oltre che per l’empowerment politico. La Finlandia mantiene il secondo posto, nonostante la flessione nella partecipazione economica. E la Norvegia mantiene il suo posto, con un lieve incremento, seguita dalla Svezia che mantiene il quarto posto, nonostante la flessione del suo punteggio.

A livello globale, i risultati mostrano un miglioramento sul piano della salute (96%), e dell’istruzione (93%); mentre per l’uguaglianza economica e la partecipazione politica i progressi si arrestano a percentuali molto più basse (rispettivamente 60% e 21%).

L’Italia al 71° posto

Per quanto riguarda l’Italia, si trova collocata al 71° (indice pari a 0,689) posto e la sua posizione per singolo indicatore è stata la seguente: a) partecipazione economica e pari opportunità: 97° posto (ultimo scalino in Europa); b) istruzione e formazione: 65° posto; c) salute e sopravvivenza: 72° posto; d) potere politico 44°.

Nella partecipazione economica e pari opportunità, l’Italia è preceduta da Paesi come Nicaragua, Ecuador, Senegal, Belize, Azerbaijan, Tanzania, Bolivia, Botswana, Kenya, Ghana e Barbados.

Fa osservare, in proposito, Yasmina Bekhouce, una delle firmatarie del Rapporto: «In generale, l’Italia si colloca più in basso dei Paesi scandinavi per tutti i quattro sotto-indici che compongono il Global Gender Gap Report (…). Il posizionamento generale dell’Italia può essere spiegato principalmente con il basso risultato nella classifica della partecipazione e opportunità economiche. Solo il 52% delle donne lavora, mentre lo fa il 74% degli uomini. Il vero aspetto discriminante è quello del salario: un’italiana in media guadagna 0,47 centesimi per ogni euro guadagnato da un uomo. La posizione dell’Italia nella classifica che misura l’eguaglianza salariale percepita è molto bassa: 124a su 136 Paesi e al di sotto della media mondiale».

 

Fonte: World Economic Forum, 2013 a.

 

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Infografica di www.stampaprint.net/it

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