Il Rapporto 2017 di Amnesty: diritti umani violati in tutti i paesi

Il Rapporto 2017 di Amnesty: diritti umani violati in tutti i paesi

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Come un gambero il mondo va all’indietro: ripiombato in un buio clima da anni Trenta, diviso con l’accetta nell’inquietante binomio “noi” e “loro”, permeato di populismo razzista che lambisce il fascismo.

Il quadro che emerge dal Rapporto 2017 di Amnesty International è allarmante perché smonta l’impalcatura di falsa democrazia che l’Occidente – esperto “esportatore” – ha sempre usato per distanziarsi dalla funzionale categoria degli Stati canaglia.

La violazione dei diritti umani si allarga a macchia d’olio, tocca la quasi totalità dei paesi del mondo (159 quelli analizzati). Le parole chiave della deriva si accavallano: rifugiati, torture, sparizioni forzate, autoritarismi, muri.

Come si accavallano i nomi di chi oggi rappresenta «un mondo martoriato da una distruzione di vita e beni senza precedenti negli ultimi 70 anni»: Trump, Duterte, Erdogan, al-Sisi, Orbán.

Qualche numero: in 23 Stati sono stati commessi crimini di guerra, in metà si pratica la tortura, in 22 sono stati uccisi difensori dei diritti umani e in 36 è stato violato il diritto internazionale in materia di richiesta d’asilo.

Sullo sfondo un clima di razzismo strisciante che divide gli esseri umani in etnie, confessioni, razze e che riguarda anche l’Italia: «Esiste una retorica di divisione alimentata dal alcuni leader politici come Matteo Salvini della Lega Nord e Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia», dice Antonio Marchesi, presidente di Amnesty Italia.

Una retorica che entra nell’amministrazione italiana e europea, fisicamente visibile nei muri e i lacrimogeni che accolgono i migranti in fuga e nei pacchetti di aiuti miliardari a paesi che violano palesemente i diritti umani.

Nel mirino di Amnesty finiscono gli accordi sui migranti siglati da Roma e Bruxelles, fatti di Cie, maltrattamenti, respingimenti in violazione del diritto d’asilo, morti in mare: «L’applicazione da parte delle autorità italiane dell’approccio hotspot europeo – si legge nel rapporto – ha portato a casi di uso eccessivo della forza, detenzione arbitraria e espulsioni collettive».

Non si salva la Francia chiamata in causa per quattro estensioni dello stato di emergenza e attacchi come lo sgombero della “giungla” di Calais. Né si salva la Ue che con Ankara ha siglato un accordo che prevede la deportazione dei nuovi arrivati (senza valutarne l’eventuale diritto d’asilo) sulla base della definizione della Turchia come «paese sicuro».

Un «paese sicuro» in cui è in corso una guerra contro i kurdi, due milioni di rifugiati vivono in campi profughi o per le strade delle grandi città senza opportunità di integrazione, 10 parlamentari sono in prigione insieme a 150 giornalisti.

E tale pare essere la definizione che tocca alla Libia, destinataria di un altro accordo seppur divisa in parlamenti rivali, preda di milizie armate e nota per il trattamento riservato ai migranti nei centri di detenzione nel deserto.

Mentre si raccoglievano le spoglie delle 74 vittime dell’ultimo naufragio sulle coste della città di Zawiya, il ministro degli Interni Minniti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema di accoglienza presentava il memorandum libico come modello di un progetto strategico per l’Africa: «Abbiamo fatto un accordo importante con il Niger, più di recente con la Tunisia e firmato un memorandum con la Libia. L’idea è che l’Italia possa svolgere il ruolo di paese apripista».

L’«emergenza migranti», evento epocale che sveste l’Europa di decenni di presunta cultura di pace e accoglienza, si inserisce in un più vasto imbarbarimento dei discorsi promossi da movimenti xenofobi e di ultradestra che puntano a farsi (o si sono già fatti) governo.

Il linguaggio cambia e plasma la dicotomia noi/loro, rintracciabile nelle politiche dell’amministrazione Trump o del governo ungherese di Orbán.

«Il cinico uso della narrativa del noi contro loro, basata su demonizzazione, odio e paura, ha raggiunto livelli che non si vedevano dagli anni Trenta – scrive Salil Shetty, segretario generale di Amnesty – Un numero elevato di politici risponde ai legittimi timori nel campo economico e della sicurezza con una pericolosa e divisiva manipolazione delle politiche identitarie».

Una manipolazione che investe di riflesso la rete di alleanze globali ed erge a colonne portanti della lotta al terrorismo islamista regimi di stampo autoritario.

Ce lo ricorda Giulio Regeni, vittima della pervasiva macchina della repressione egiziana che oggi ripropone ad un livello ancora peggiore le stesse politiche dell’era Mubarak: torture, sparizioni forzate, omicidi extragiudiziali, soffocamento della società civile sono pratiche ormai sistematiche.

L’elenco potrebbe continuare: le Filippine di Duterte e i 7mila omicidi giustificati con la lotta al traffico di droga; le bombe saudite in Yemen; la legge sulla sorveglianza di massa del Regno Unito; gli attacchi in Polonia ai diritti di donne e Lgbti; il fuoco che ha distrutto centinaia di villaggi in Darfur; la pratica israeliana dello “spara per uccidere” e la strutturale confisca di terre palestinesi da parte di Tel Aviv.

E, compiendo un giro completo, si torna all’Italia. Amnesty rilancia la lettera inviata con Antigone, A Buon Diritto e Cittadinanzattiva al ministro della Giustizia Orlando: Roma introduca il reato di tortura.

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