Le patologie delle povertà. Salute e diseguaglianze
Si parla di equità nella salute perché questa equità non c’è, è un obiettivo da raggiungere, a fronte della complessa mappa di disuguaglianze di salute che caratterizzano le nostre società. È sia un problema di giustizia sociale – e per noi di rispetto del dettato costituzionale che definisce la salute un diritto – sia di sviluppo socio economico, perché quello che è il potenziale di salute di una società è limitato, depotenziato e minato proprio dalle disuguaglianze, e il loro superamento è dunque funzionale tanto al benessere individuale che allo sviluppo sociale.
Il Rapporto sui diritti globali, realizzato dalla associazione Società INformazione e dalla sua redazione, promosso dalla CGIL, nel suo ultimo volume, il 14°, giunto da poco in libreria, contiene un Focus di approfondimento
Proponiamo qui un estratto dal Focus.
Il Rapporto integrale può essere acquistato in libreria o richiesto all’editore Ediesse
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LA SALUTE DISUGUALE
«Povertà materiale e povertà di reti di aiuto, disoccupazione, lavoro poco qualificato, basso titolo di studio sono tutti fattori, spesso correlati un l’altro, che minacciano la salute degli individui. Numerosi studi pubblicati negli ultimi 20 anni hanno dimostrato che in tutta Europa i cittadini in condizioni di svantaggio sociale tendono ad ammalarsi di più, a guarire di meno, a perdere autosufficienza, a essere meno soddisfatti della propria salute e a morire prima» (Costa e altri, 2014).
Le disuguaglianze sociali, oltre a essere alla base di dinamiche di povertà croniche e in crescita e tra i più incisivi ostacoli alla ripresa economica e sociale, sono anche produttrici di malattia e morte, secondo un andamento disuguale e discendente – la cosiddetta legge del gradiente sociale – secondo cui più si scende nella scala sociale, più la salute è esposta a rischi, malattie e morte. Al contempo, questa legge non ha nulla a che fare con un destino ineluttabile, ma ha molto a che fare con le scelte politiche, perché «tutti gli ambiti delle politiche, sanitarie e non sanitarie, hanno a disposizione numerose azioni che, opportunamente calibrate, possono concorrere a contrastare o moderare i vari meccanismi di generazione delle disuguaglianze di salute». Come ricorda l’epidemiologo Giuseppe Costa, curatore con altri del Libro bianco sulle disuguaglianze nella salute, «oltre che per l’importante impatto sulla mortalità e la morbosità, ci sono altre buone ragioni per doversi occupare di queste disuguaglianze di salute così rilevanti. La prima è che esse sono ingiuste perché stanno sistematicamente a svantaggio dei gruppi sociali più sfavoriti e perché contemporaneamente sono anche evitabili, almeno in parte. Inoltre esse sono anche inefficienti, perché rappresentano un freno allo sviluppo sociale ed economico di un Paese, in quanto presuppongono l’uscita precoce dal mercato del lavoro di individui altrimenti produttivi, un maggior costo a carico del servizio sanitario, delle politiche assistenziali e del welfare, così come una ragione di minore coesione sociale, con un impatto complessivo stimato intorno al 10% del PIL» (Costa, 2014).
Ingiuste, evitabili, costose: tre aggettivi che fanno (dovrebbero fare) delle disuguaglianze di salute – e di contro dell’obiettivo dell’equità nella salute – un tema prioritario delle politiche di welfare e della politica tout court di un Paese, tema che negli ultimi due decenni ha smesso di essere appannaggio dei Paesi in via di sviluppo ed è diventato sempre più presente nelle agende, nelle strategie e nella dialettica sociale e politica dei Paesi più ricchi, e nella stessa Unione Europea. Qui, se i problemi correlati alle disuguaglianze di salute appaiono meno drammatici di quelli da sempre registrati nei Paesi più poveri del mondo, il doppio movimento “a tenaglia”, esponenzialmente incentivato dalle politiche di austerità post crisi del 2008, di crescente disuguaglianza sociale – per esempio e in primis nella distribuzione del reddito e della ricchezza – e di forti tagli al welfare sta disegnando un orizzonte fortemente critico. E minaccioso per il diritto alla salute.
La salute complessa. Equità, disuguaglianze e determinanti sociali
A livello globale e anche nei Paesi più ricchi si parla di equità nella salute perché questa equità non c’è, è un obiettivo da raggiungere, a fronte della complessa mappa di disuguaglianze di salute che caratterizzano le nostre società. È sia un problema di giustizia sociale – e per noi di rispetto del dettato costituzionale che definisce la salute un diritto – sia di sviluppo socio economico, perché quello che è il potenziale di salute di una società è limitato, depotenziato e minato proprio dalle disuguaglianze, e il loro superamento è dunque funzionale tanto al benessere individuale che allo sviluppo sociale.
La salute è una dimensione complessa, in cui si intrecciano fattori che attengono all’individuo, fattori di contesto, fattori relativi all’ambiente, altri correlati alle politiche e ai sistemi di welfare. Le povertà – in senso non solo economico – e l’esclusione entrano nella scena della salute come uno dei determinanti sociali della salute stessa, quelle variabili che influenzano lo stato di salute individuale e collettivo, e che secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS, World Health Organization, WHO) sono «le condizioni in cui le persone nascono, crescono, lavorano, vivono e invecchiano, sono, anche, il più ampio ambito di forze e sistemi che hanno influenza sulla vita quotidiana. Queste forze e questi sistemi includono le politiche economiche e sociali, agenda e obiettivi di sviluppo, norme sociali e sistemi politici» (WHO, 2010).
La posizione sociale è, nella mappa dei determinanti disegnata dall’OMS, cruciale, include la classe sociale, il genere, la provenienza etnica, l’educazione, l’occupazione e il reddito. È una dimensione che si riferisce al «grado di controllo che la persona ha sulla propria vita che è garantita da quei determinanti sociali, le risorse materiali, di status e di aiuto, che servono a condurre una vita dignitosa e corrispondente alle aspettative» (Costa, 2014).
Dunque entrano in gioco tanto le risorse economiche, il reddito, e le risorse sociali, per esempio in termini di reti, quanto quelle immateriali come il grado di istruzione quanto, ancora, quelle fornite dal sistema di welfare, nel momento in cui esso entri in campo per sostenere e fornire al singolo pari opportunità. Esiste oggi una evidenza indiscutibile del fatto che man mano che si scende nella scala sociale diminuisce la qualità della salute e aumentano i rischi, «lo svantaggio sociale, per intensità e dimensione, è il principale determinante nelle variazioni di salute nella popolazione» (Costa e altri, 2014).
Ma come agisce nel concreto questo svantaggio? Le variabili che influiscono sulla salute non sono solo molteplici, sono anche interconnesse e, di più, interdipendenti: i determinanti sociali menzionati, come la posizione sociale (chiamati distali) hanno una influenza su altri determinanti (chiamati prossimali) che riguardano il contesto, appunto, più vicino al singolo, come quello di lavoro, o famigliare oppure alcune caratteristiche culturali o psicosociali, fattori che possono esporre la persona in maniera più o meno intensa a fattori di rischio e renderlo più o meno vulnerabile. Questo è importante, se si considera certa retorica vigente attorno ai cosiddetti “comportamenti a rischio”, che vengono attribuiti alla responsabilità del singolo come se questi vivesse nel vuoto sociale: la teoria dei determinanti sociali ci dice che la posizione e il contesto sociale influenzano da vicino anche le possibilità e le capacità che le persone hanno di orientarsi, adottare comportamenti e limitare la propria vulnerabilità. Chi è in posizione superiore nella scala sociale non solo ha maggiori risorse per una buona qualità di vita e per cure e prevenzione – il che è comunque vero – ma anche maggiori risorse immateriali e di contesto per essere un soggetto non, o comunque meno, vulnerabile ed esposto ai diversi fattori di rischio: «In molti casi le persone di bassa posizione sociale esposti allo stesso fattore di rischio manifestano effetti sfavorevoli sulla salute più severi di quanto non succeda alle persone di alta posizione sociale».
Infine, ma non ultimo, la posizione sociale influisce anche sulla cosiddetta trappola della povertà, quel meccanismo per cui se si è poveri non solo ci si ammala di più e si muore prima, ma anche si subiscono maggiormente le conseguenze socio economiche della malattia: «I gruppi più svantaggiati hanno meno risorse per far fronte o prevenire le conseguenze sociali dell’esperienza di malattia (si pensi al rischio di impoverimento per le spese sanitarie o di difficoltà di carriera lavorativa in presenza di una malattia propria o di un famigliare)» (Costa, 2014).
Insomma, povertà, deprivazione, esclusione ammalano, uccidono, accrescono il prezzo che la malattia richiede ai più fragili, e al contempo alimentano un circolo vizioso imponendo alla collettività elevati costi sociali.
Determinanti sociali e politiche. Una sfida aperta
Se questo è lo scenario, le risposte politiche per l’equità e per il superamento delle disuguaglianze di salute non possono essere giocate solo sul piano delle politiche “sanitarie”. È ben vero che una sanità universalistica, di qualità e accessibile resta una variabile cruciale e che il sistema sanitario rimane parte integrante della risposta; ma è pur vero che le sfide alla politica si giocano sul piano più articolato dell’approccio Health in all policies (Salute in Tutte le Politiche), come recita l’accordo europeo in tema di salute del 2007 [vedi più avanti, al paragrafo sull’Europa]: la capacità cioè di programmare politiche in tutti i campi coinvolti e influenti – politiche sociali, economiche, del lavoro, dell’educazione, del governo delle città, dell’ambiente, dell’alimentazione – con attenzione all’impatto e alle ricadute di ognuna in termini di salute; sia in maniera proattiva, mirando a interventi con efficaci effetti positivi sul potenziale di salute e di bilanciamento delle disuguaglianze; sia in maniera preventiva, «identificando gli impatti che queste politiche hanno sui determinanti e in particolare l’impatto asimmetrico che si trasferisce sulla popolazione, aumentando di fatto lo svantaggio e le conseguenze sulla salute di alcune fasce o gruppi» (Costa, 2014). In questo quadro, le politiche di lotta alle povertà e all’esclusione diventano cruciali: posizione sociale, reddito, istruzione, occupazione e qualità del lavoro sono tra i primi e più incisivi determinanti sociali di salute, così come la forbice delle disuguaglianze sociali si traduce nel divario, spesso ampio su uno stesso territorio, tra le condizioni di salute dei gruppi sociali. L’equità nella salute è una sfida globale, e la sua complessità, la molteplicità delle variabili in gioco, la stretta interdipendenza tra tutti i fattori che “fanno” la salute sono una straordinaria lente attraverso cui leggere il modello della globalizzazione liberista e le sue contraddizioni.
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Diritto alla salute e lotta alle diseguaglianze sono intessuti nella trama dei principi costituzionali; anzi, il diritto alla salute è il solo che, con l’art. 32, vi viene definito “fondamentale”. Perciò, percorrendo gli articoli 3, 2comma, 4, 32 e 38, la chiamo la Costituzione dei lavoratori, perché nell’art. 3 si proclama il principio di uguaglianza, rompendo nei confronti degli statuti del passato, dove la titolarità dei diritti e dei doveri dipendeva dall’estrazione sociale e dal sesso di appartenenza. L’articolo 3, per la prima volta innovando, assegna al principio di eguaglianza un fine evolutivo, non più solo formale, chiamando lo Stato a creare e adottare politiche idonee a a rimuovere ogni barriera di ordine naturale, sociale, economico che impedisca ai cittadini di realizzare pienamente la propria personalità. L’articolo 4 amplia l’articolo 1 che fonda la Repubblica sul Lavoro., assegnando a questo il duplice ruolo di diritto e dovere, come di un ascensore sociale cui, insieme, il cittadino e lo Stato devono tendere per avvicinare ciascuno all’Eguaglianza sostanziale. E il lavoro è il cardine della democrazia, perché non c’è Libertà senza Dignità e non c’è Dignità senza Lavoro. L’art. 38 chiude il cerchio con il principio di Solidarietà. Lo riporto perché, laddove parla di disoccupazione involontaria, dimostra che la Costituzione è settantenne, ma è giovane e guarda al futuro, più di quanti anela no ai redditi di cittadinanza e non sanno di avere di più. Lo riporto: “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, DISOCCUPAZIONE INVOLONTARIA. Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale.
Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato.