Gli italiani e l’italiano, una lingua che non sappiamo più parlare

by Alba Sasso, il manifesto | 7 Febbraio 2017 9:29

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Scriveva Tullio De Mauro nel 2003 :” La scuola opera e se ne intende pienamente l’opera solo guardandola nel suo rapporto di dare e avere reciproco con tutta la cultura di un Paese, e non soltanto con la cultura intellettuale, scientifico-letteraria, ma con la cultura complessiva, antropologica di una popolazione”.

È una riflessione da tenere a mente quando, periodicamente, si affacciano gli allarmi sul fatto che ragazze e ragazzi usciti dalla nostra scuola non “padroneggiano” pienamente l’italiano, scritto e, probabilmente, anche parlato. Una riflessione che denuncia un problema serio, da affrontare al più presto. Intanto, dobbiamo chiederci , guardandoci intorno, che lingua parliamo, leggiamo, scriviamo perfino sui giornali, sui social, in televisione. Spesso una lingua povera, gergale, contratta, non sempre corretta.

De Mauro, inoltre, ha sempre sottolineato come, soprattutto per bambine e bambini della scuola primaria, l’efficacia dell’insegnamento linguistico a scuola poggi anche su un contesto familiare attento all’istruzione, presenza di libri in casa, e sulla capacità d’uso di un italiano corretto. Ma, come rileva il CENSIS, quasi il 70% degli italiani si trova sotto il livello di comprensione di un testo di media lunghezza. E, dall’ultima rilevazione pervenuta, sappiamo che il 54,7% degli italiani non legge neanche un libro all’anno.
È una situazione preoccupante e allora, davvero, la scuola da sola non ce la può fare. Perché il problema non riguarda solo la scuola stessa.

Ci vorrebbe un grande investimento e non solo finanziario. Perché hanno ragione i firmatari dell’appello degli universitari, apparso sulla stampa in questi giorni. È fondamentale possedere solide competenze linguistiche e direi anche matematiche, sin dall’uscita dalla scuola primaria. La maggior parte delle ragazze e dei ragazzi che non le possiedono all’ Università non ci arrivano nemmeno, ma si perdono prima, molto prima. L’irrisolto problema della scuola italiana, come diceva Don Milani.

Ci vorrebbe un grande investimento per combattere la dispersione scolastica, quella palese che diventa fuoriuscita dal sistema e quella latente, nascosta, che permette a tante e a tanti di rimanere stentatamente nel percorso scolastico, riuscendo a occultare le proprie carenze fino a quando queste non esplodano, come rileva appunto l’appello degli universitari.

Nella legge 107, quella presentata come la “riforma epocale’ del sistema scuola, non una proposta su questo, come nessuna proposta su un sistema di educazione permanente o educazione degli adulti che possa affrontare il tema dell’analfabetismo di ritorno.

In Francia, forse qualche decennio fa, furono inviati nelle scuole task- force di giovani laureati ( se non mi sbaglio 20.000 circa) per rafforzare capacità di apprendimento, saperi di base dentro e fuori la scuola, potenziando quelle attività culturali anche esterne alla scuola che non sempre gli insegnanti, oberati tra l’altro di mille inutili adempimenti, riescono a portare avanti. Quelle attività che aprono la mente e aiutano ad imparare di più e meglio.

Si potrebbe fare anche in Italia, magari utilizzando i Fondi europei, come si continua a fare in Puglia col progetto ” Diritti a scuola” , tra l’altro premiato, per i suoi risultati di riduzione della dispersione scolastica, a Bruxelles.
E iniziative di chiamiamole di “supporto” a studentesse e studenti si potrebbero realizzare ( in alcuni casi questo già avviene) nelle Università.

Ecco credo abbastanza inutile aprire un “Je accuse” tra scuola e Università, perché il problema non è nei recinti delle singole istituzioni, o nei loro rapporti, è nella volontà politica di affrontarli per cominciare a risolverli.
È un impegno politico, è un obbligo costituzionale.

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