TTIP. Se lo scambio è libero, il cittadino diventa prigioniero di interessi forti

by Monica Di Sisto e Alberto Zoratti, 14° Rapporto sui diritti globali | 13 Febbraio 2017 8:10

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Focalizzare la critica agli accordi di libero scambio solo sulla questione democratica e della trasparenza (inteso come accesso ai documenti e alle reciproche posizioni dei negoziatori) è un atto sostanziale, ma insufficiente.

Riguardo al TTIP, solo la mobilitazione delle reti sociali statunitensi ed europee e la presa di posizione, chiara quanto formalmente ineccepibile, dell’Ombudsman Europeo ha imposto alla Commissione Europea di cominciare a pubblicare sul proprio sito i documenti di posizionamento dell’Unione e, laddove possibile, i testi consolidati, i documenti risultato del negoziato con gli Stati Uniti.

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Il Rapporto sui diritti globali, realizzato dalla associazione Società INformazione[1] e dalla sua redazione[2], promosso dalla CGIL, nel suo ultimo volume, il 14°, giunto da poco in libreria, contiene un Focus di approfondimento relativo al Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) e agli altri Trattati di libero scambio, curato da Monica Di Sisto e Alberto Zoratti.

Proponiamo qui un estratto dal Focus.

Qui[3]  scaricabili l’indice generale del volume, la prefazione di Susanna Camusso e l’introduzione di Sergio Segio.

Il Rapporto integrale può essere acquistato in libreria o richiesto all’editore Ediesse[4]

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Commercio versus sviluppo sostenibile

«Riformare i meccanismi di revisione della politica commerciale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (World Trade Organization, WTO), così che possano includere le dimensioni sociale, ambientale e legata ai diritti umani basate sulle linee guida dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, delle Nazioni Unite sui diritti umani e sugli Accordi Multilaterali sull’ambiente, e promuovere uno sviluppo sostenibile, in particolar modo attraverso la costituzione di un Comitato sul commercio e il lavoro dignitoso (Committee on Trade and Decent Work) all’interno della WTO assieme all’esistente Comitato sul Commercio e l’Ambiente (Committee on Trade and Environment), come richiamato nelle raccomandazioni del 2010». È uno degli obiettivi che il Parlamento Europeo si è dato il 27 giugno 2016 con l’approvazione del Rapporto sugli standard sociali e ambientali nelle politiche commerciali, curato e presentato dall’europarlamentare italiana Eleonora Forenza (European Parliament, 2016 a).

Commercio e sviluppo sostenibile: una diade non sempre coerente e che a volte, o forse bisognerebbe dire troppo spesso, è stata utilizzata in modo retorico e non corrispondente all’effettivo senso delle parole. Dall’ambito multilaterale, leggi WTO, a quello bilaterale, leggi TTIP, vale a dire Transatlantic Trade and Investment Partnership, c’è stato qualche aggiustamento, ma ancora del tutto insufficiente. Basterebbe pensare che dall’accordo che ha istituito l’Organizzazione Mondiale del Commercio (GATT, 1994), dove è stato inserito un paragrafo specifico che parla delle misure ambientali come «eccezioni» alla liberalizzazione del commercio, si è arrivati ai trattati bilaterali di nuova generazione dove, al di là dell’effettivo contenuto delle disposizioni, si è data dignità di stampa alla relazione che esiste tra commercio e sviluppo sostenibile inteso nelle sue declinazioni fondamentali: tutela dell’ambiente e del diritto del lavoro.

Verso la fine degli anni 2000, la correlazione che esiste tra i diversi ambiti dello sviluppo comincia a trovare spazio nei Mandati negoziali che il Consiglio Europeo, l’organismo dell’Unione che coinvolge tutti i Capi di Stato e di Governo dei Paesi membri, concede alla Commissione Europea per iniziare a negoziare un trattato di liberalizzazione commerciale. Il 24 aprile 2009 inizia formalmente la trattativa per creare un unico mercato tra Canada e Unione Europea. L’acronimo è CETA, Comprehensive Economic and Trade Agreement, e rappresenta il primo tentativo di contrastare lo spostamento del baricentro dell’economia mondiale verso l’Estremo Oriente attraverso un rafforzamento degli scambi transatlantici.

Già sul Mandato – reso pubblico più di sei anni dopo, nel dicembre 2015 a Trattato concluso e firmato – è sottolineato l’impegno dei negoziatori per un commercio internazionale capace di contribuire a uno «sviluppo sostenibile nelle sue dimensioni economiche, sociali e ambientali, includendo lo sviluppo economico, la lotta alla povertà, una piena e produttiva occupazione e un lavoro dignitoso per tutti» e un impegno altrettanto concreto per «la protezione e la preservazione dell’ambiente e delle risorse naturali» (EU Council, 2009).

Un impegno che ha permesso certamente un passo in avanti, considerato che dalle «eccezioni» racchiuse in un paragrafo si è arrivati a definire il concetto all’interno di un vero e proprio capitolo (European Commission, 2016 a).

Ma la questione è: quanto è cogente e prioritaria la questione della sostenibilità e della tutela dei diritti del lavoro rispetto agli obiettivi economici e commerciali?

Una chiara indicazione, fuori da ogni retorica, viene dallo stesso testo del CETA (European Commission, 2014 b), che mostra come – a differenza di altri capitoli del Trattato, come quello sugli investimenti, dove è stata inserita una corte ad hoc per la tutela degli investitori capace di comminare compensazioni commerciali a quei governi (o a quelle Amministrazioni pubbliche) che hanno messo in discussione le aspettative di profitto di un’impresa – sulla questione della sostenibilità tutto sia appeso alla buona volontà delle Parti. In caso di inadempienza sul rispetto di un accordo multilaterale sull’ambiente o di una delle Convenzioni fondamentali dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (International Labour Organization, ILO), si aprono processi consultativi, dove vengono coinvolti i diversi portatori di interessi (tra cui i sindacati) ma con l’obiettivo di trovare una posizione condivisa. E in caso di impossibilità di arrivare a un accordo? Rimane la “moral suasion”. Che evidentemente non funziona quando in ballo sono gli interessi di un’impresa nei confronti di uno Stato, mostrando una sorta di strabismo istituzionale.

Ma il problema non è tanto, o soltanto, nella definizione e nel rispetto degli standard, quanto nei dispositivi istituzionali che l’accordo mette in campo per tutelare in modo incontrovertibile gli interessi dei principali attori di un accordo di libero scambio: le imprese.

 

La tutela degli investitori: il caso CETA

L’accordo con il Canada da più parti è stato definito come una sorta di falsariga del più problematico Trattato con gli Stati Uniti, l’ormai famigerato Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) (European Commission, 2016 b).

I collegamenti non si trovano solo negli ambiti di intervento e nella cornice generale di accordo “di seconda generazione”, dove, oltre al taglio delle tariffe, trovano posto anche l’armonizzazione delle barriere non tariffarie (regolamentazioni) e le disposizioni di tutela degli investimenti. Ma anche nelle reciproche modifiche che intervengono nel momento in cui ci fossero cambiamenti sostanziali nell’assetto di alcuni capitoli negoziali. Uno di questi riguarda l’arbitrato per la tutela degli investimenti, l’ormai famoso ISDS (Investor-to-State Dispute Settlement) che tanto ha fatto discutere l’opinione pubblica statunitense ed europea, al punto che in occasione di una consultazione organizzata dall’Unione Europea sul tema, ben il 97% delle oltre 150 mila risposte inviate erano fermamente contrarie a un arbitrato privato per la risoluzione delle controversie sugli investimenti (European Commission, 2014 a). Nonostante un primo arrogante rifiuto da parte dell’allora Commissario al Commercio Karel De Gucht (EDRI, 2014), è bastato cambio della guardia alla Commissione Europea e più di un anno di lavoro per reimpostare la posizione dell’Unione sulla questione. Ci sono voluti studio e analisi per arrivare a proporre una nuova versione dell’arbitrato per la tutela degli investimenti presentata dalla Commissione Europea come un approccio che «consentirà all’Unione Europea di rivestire un ruolo globale nel percorso di riforma per creare una Corte internazionale basata sulla fiducia dei cittadini» (European Commission, 2015 b).

Una proposta subito bocciata dai movimenti sociali e dalle reti Stop TTIP di tutta Europa, secondo i quali la nuova Corte arbitrale manterrebbe intatti i privilegi di gruppi privati nei confronti della società civile. Mantenendo la possibilità per le imprese di scegliere se rivolgersi a questo tribunale internazionale o utilizzare quelli nazionali, si crea una scappatoia per aggirare la giurisdizione pubblica negli Stati (Stop TTIP Italia, 2015 a).

Una posizione ribadita da centri studi accreditati, come il Canadian Centre for Policy Alternatives (CCPA, 2016) o il Corporate Europe Observatory, che analizzano come cinque esempi di cause intentate da imprese contro gli Stati attraverso l’arbitrato convenzionale ISDS (si ricorda, tra le altre, la causa della multinazionale canadese Transcanada contro l’Amministrazione Obama) possano riproporsi anche in presenza di una Corte internazionale dalle caratteristiche simili a quella proposta dalla Commissione Europea. Un rischio per l’ambiente, ma anche per il diritto di regolamentazione (e per l’agibilità politica) dei governi coinvolti.

Per questo motivo, 280 organizzazioni non governative da tutta Europa (tra cui la campagna Stop TTIP Italia e l’associazione italiana Fairwatch) hanno presentato una lettera aperta nel febbraio 2016 per chiedere la cancellazione del dispositivo ISDS (o della sua proposta riformata, l’ICS) dai negoziati TTIP e CETA in primis.

Entrambi, si legge nella nota diffusa dalla coalizione «danno diritti esclusivi agli investitori stranieri, mentre sono discriminatori verso gli investitori locali e le comunità, senza evidenza alcuna di benefici per l’intera società». «Sia l’ISDS che l’ICS possono forzare i governi a utilizzare miliardi provenienti dai contribuenti per pagare compensazioni alle imprese multinazionali a causa di politiche per la salute pubblica, ambientali, di tutela del diritto del lavoro e per l’interesse pubblico, per azioni di governo e anche per sentenze delle Corti. Non assicurano che gli interessi privati non possano indebolire gli obiettivi di politica pubblica». Infine, entrambi non sono «soggetti ai principi e a scrutinio democratici. I Parlamenti non saranno in grado di modificare le leggi successivamente», lasciando spazio così agli interessi privati.

«Nonostante abbia perso in Australia, non c’è dubbio che la Philip Morris continuerà la sua battaglia per evitare la perdita dei suoi mercati di morte utilizzando ogni mezzo possibile», ha dichiarato Emma Woodford, direttrice del Health and Trade Network, «escludere l’ISDS e l’ICS da tutti gli accordi commerciali è il solo modo per sostenere pienamente i governi nazionali nel lavoro per il quale sono stati democraticamente eletti» (Seattle to Brussels Network, 2016 a).

 

Transcanada e il Keystone XL

 Quasi 1900 chilometri di oleodotto di 91 centimetri di diametro, un’opera imponente che avrebbe collegato i siti estrattivi dell’Alberta, in Canada, con le raffinerie statunitensi fino a Steele City, nel Nebraska, nel Sud degli Stati Uniti, circa otto miliardi di dollari di investimento, con i cantieri a regime, che ha visto l’opposizione dei movimenti sociali e delle organizzazioni ambientaliste statunitensi.

Secondo Friends of the Earth la costruzione dell’oleodotto avrebbe permesso il trasporto giornaliero di oltre 830 mila barili di greggio, con un contributo alle emissioni di gas serra che corrisponde a 5,6 milioni di nuove auto sulle strade americane (FOE, 2015). Una mobilitazione che ha portato il presidente Barack Obama a opporsi al progetto, presentando un veto alla legge favorevole alla costruzione votata dal Senato nel febbraio 2015 e negando quindi il permesso alla multinazionale il 6 novembre dello stesso anno.

Transcanada ha ritenuto illegittima quella decisione, denunciando il governo degli Stati Uniti davanti all’arbitrato ISDS inserito nel Capitolo XI del NAFTA, l’Accordo di libero scambio che dal 1994 unisce i mercati di Canada, Stati Uniti e Messico (Transcanada – Keystone XL, 2016). La richiesta? Oltre 15 miliardi di dollari di compensazione economica, con l’obiettivo di far tornare sui suoi passi l’Amministrazione Obama, nonostante l’investimento iniziale superasse di poco i tre miliardi. Una scelta che ha portato a un’alzata di scudi della società civile di mezzo mondo, come Cécile Toubeau, responsabile advocacy dell’ONG europea Transport and Environment, che ha sottolineato come questo sia «un altro esempio di come un ISDS blocchi ogni azione per contrastare il cambiamento del clima. Secondo Toubeau, «purtroppo, la proposta modificata della Commissione Europea sull’ISDS non impedirà questo tipo di privilegi antidemocratici per gli investitori stranieri, a scapito dei cittadini e dell’ambiente» (FOE, 2016 a).

Un’approfondita analisi del caso Transcanada è stata portata avanti in un Rapporto redatto da una coalizione di ONG americane e canadesi e diffuso all’inizio del 2016 (FOE, 2016 b). Nel report, inoltre, si trova un confronto tra alcuni trattati di libero scambio e l’effetto che gli arbitrati hanno avuto (o potrebbero avere) una volta applicati.

L’ISDS inserito nella Trans Pacific Partnership (TPP), l’accordo gemello del TTIP che coinvolge dodici Paesi del Pacifico e che è stato concluso nel 2015, riprende molto del linguaggio e dei concetti presenti all’interno del NAFTA, dove solo contro il Canada sono state depositate sinora almeno 39 cause. Nel momento in cui il TPP sarà operativo, si legge nel Rapporto «il suo capitolo sugli investimenti esporrebbe i Paesi firmatari a un rischio crescente e inedito. Ad esempio, permetterebbe a più di 9 mila imprese straniere giapponesi, australiane o provenienti da altri Paesi TPP e che operano negli Stati Uniti, di sfidare le politiche americane sul clima, sulla protezione ambientale o di altri interessi pubblici» (FOE, 2016 b).

 

Europa, Canada e sviluppo sostenibile

Il CETA contiene norme stringenti «per la protezione dei diritti del lavoro e dell’ambiente. Entrambe le parti hanno promesso di non indebolire gli alti standard europei per rispondere a interessi commerciali, ma al contrario di incoraggiare altri Paesi nel mondo, in particolare quelli in via di sviluppo, a raggiungerli essi stessi» (European Commission, 2016 c). È proprio con il Canada che la retorica europea sugli accordi di seconda generazione raggiunge il suo apice e questo per diversi motivi: il Canada è un importante partner commerciale, in particolar modo se si guarda alla questione agricola e a quella dei prodotti tipici, raggiungere una protezione (sebbene parziale e discutibile nella sua architettura) delle DOP e delle IGP europee vuol dire tentare di intaccare la filosofia “da nome comune” del continente americano e dare un contentino ai Paesi, come l’Italia, che del tema ne hanno fatto un cavallo di battaglia.

Il CETA, oltretutto, è stato da molti definito una sorta di precursore del TTIP, e concluderlo in pompa magna significa creare le condizioni perché anche l’accordo con gli Stati Uniti possa avere una vita più facile.

Ma sono condivisibili e, soprattutto, dimostrabili i presunti vantaggi dal punto di vista della sostenibilità e degli alti standard sociali e ambientali?

Diverse ONG europee e canadesi, nonché centri di ricerca indipendenti, hanno storto il naso, provando a sottolineare come dietro a una retorica da “siamo tutti vincitori” ci siano dei possibili perdenti, in primis l’ambiente. Council of Canadians, storico think tank alternativo canadese, aveva già da anni messo in campo un’analisi approfondita sui rischi dell’approvazione di un simile Trattato, che sembra superare sé stesso dell’adattare persino le logiche del libero mercato agli interessi delle corporations.

«La feroce attività di lobby portata avanti dal Canada contro la Fuel Quality Directive (FQD)», si legge nel report, «fornisce un altro buon esempio di come gli accordi commerciali e la politica ambientale possano contraddirsi a vicenda». Il Canada aveva infatti insistito sul carattere discriminatorio della proposta europea di considerare il petrolio da sabbie bituminose come più inquinante di quello convenzionale, «non basata sulla scienza» e di facile messa in mora da parte della WTO (Council of Canadians, 2012).

«Sebbene la scienza abbia provato che la produzione da sabbie bituminose è più ad alta intensità di carbonio che non la più convenzionale estrazione petrolifera» continua il report, diversi casi alla WTO «come quello menzionato fanno dubitare che la FQD possa sopravvivere a una causa».

E non basta. Precedenti mostrano come la presenza di dispositivi a tutela degli investimenti (e soprattutto degli investitori) possano essere considerati una sorta di piede di porco per disarticolare le normative ambientali canadesi. E il riferimento è al NAFTA, l’Accordo di libero scambio concluso tra Stati Uniti, Canada e Messico ed entrato in vigore nel 1994, che ha permesso a imprese come la S.D. Meyers di ingaggiare e vincere una causa contro il bando temporaneo sull’esportazione di rifiuti tossici a base di PCB dal Canada agli Stati Uniti. Considerato che l’attività era illegale secondo la legge statunitense, il Canada valutò ragionevole vietarne l’export, ma un arbitrato stabilì che quella decisione era una vera e propria violazione del libero mercato secondo i concetti del «trattamento nazionale» e degli «standard minimi di trattamento» per la S.D. Myers. Una sentenza che impose al governo canadese di pagare cinque milioni di dollari in compensazione economica.

Non che non ci sia un passo avanti evidente, come già sottolineato, nel dare cittadinanza e dignità alle questioni dell’ambiente e del diritto del lavoro, ma come evidenziato da un’organizzazione canadese di diritto ambientale «l’Accordo è redatto in modo molto permissivo, al contrario rispetto a termini vincolanti, lasciando l’interpretazione delle normative alla discrezione delle Parti» (CELA, 2015).

Il limite di tutto il meccanismo sta proprio nel dispositivo che dovrebbe rafforzarlo: la norma per la risoluzione delle controversie si basa su un approccio consultivo e cooperativo che copre tutti gli obblighi convenuti tra le Parti sotto il capitolo ambientale. Una delle due può infatti richiedere una consultazione con l’altra Parte con riferimento a ogni ambito del capitolo in questione. Nel caso in cui non si riesca a raggiungere un accordo soddisfacente in seguito alle consultazioni, è possibile costituire un panel di esperti. Se anche in quel caso non si avesse una conclusione concordata, l’unica soluzione possibile è continuare nel confronto, identificando misure appropriate e decidendo per un piano di azione «mutualmente soddisfacente». L’accordo, de facto, «non consente multe o sanzioni economiche in caso di non osservanza delle norme ambientali» (CELA, 2015).

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Endnotes:
  1. Società INformazione: http://www.dirittiglobali.it/chi-siamo/
  2. redazione: http://www.dirittiglobali.it/archivio/rapporto-sui-diritti-globali-2013/redazione-2013/
  3. Qui: http://www.dirittiglobali.it/archivio/rapporto-sui-diritti-globali-2016/
  4. ditore Ediesse: http://www.ediesseonline.it/

Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2017/02/90735/