by Orsola Casagrande, 14° Rapporto sui diritti globali | 6 Febbraio 2017 8:55
Cifre, storie, morti. La guerra permanente è oggi sempre più anche sinonimo di esodo permanente. Teorizzata e voluta dall’ex presidente degli Stati Uniti George W. Bush insieme all’ex primo ministro inglese Tony Blair e ai capi di Stato “volenterosi” (Italia e Francia comprese) ha usato come pretesto l’attentato alle Torri Gemelle rivendicato da al-Qaeda l’11 settembre del 2001.
Quindici anni sono passati da allora è il costo delle guerre avviate dopo quell’attentato è enorme, così come il costo di vite umane. Le conseguenze drammatiche di questo conflitto permanente sono davanti agli occhi di tutti: morte, distruzione, macerie.
È un mondo in fuga dalla guerra, dalla repressione, dalla fame, dalla siccità
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Il Rapporto sui diritti globali, realizzato dalla associazione Società INformazione[1] e dalla sua redazione[2], promosso dalla CGIL, nel suo ultimo volume, il 14°, giunto da poco in libreria, contiene un Focus di approfondimento relativo all’intreccio causale tra guerre e migrazioni e agli effetti globali in particolare sotto il profilo dei diritti umani, curato da Orsola Casagrande.
Proponiamo qui un estratto dal Focus.
Il Rapporto integrale può essere acquistato in libreria o richiesto all’editore Ediesse[4]
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Quando a muoversi è un mondo
«Siamo di fronte alla crisi di profughi e sfollati più grande dei nostri tempi. Però soprattutto questa non è una crisi di numeri, è anche una crisi di solidarietà», così l’ex Segretario delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon. Parole che rivelano una drammatica realtà ma anche l’impotenza della stessa ONU, ormai sempre più ridotta a un mero ufficio di “contabilità”: e i conti che fa sono quelli a sei cifre dei profughi, dei morti, delle vittime, di guerre, disastri naturali, crimini di guerra e di pace perpetrati dai governi degli stessi Paesi che la compongono in un perverso gioco delle parti, dove carnefici e salvatori hanno sempre più spesso lo stesso volto.
Quelle fornite dall’UNHCR (United Nation High Commissioner for Refugees) sono forse le cifre più vicine alla realtà, sapendo che è estremamente difficile calcolare il numero di persone che muore ogni giorno nei vari conflitti del mondo, che fugge da quei conflitti, che si sposta – nomadi loro malgrado – da un territorio all’altro o all’interno della loro nazione, anime senza pace.
In quello che sembra un disperato tentativo di rimanere “ottimisti” in una situazione drammatica come è quella che stiamo vivendo, l’UNHCR apre il suo Rapporto Global Trends 2015 con queste parole: «Mentre il tasso di incremento è rallentato se paragonato al drastico aumento degli ultimi due anni, il numero attuale degli sfollati globalmente rimane il più alto dalla fine della Seconda guerra mondiale». Dal 2011, infatti, quando l’UNHCR ha annunciato un nuovo record di 42,5 milioni di persone costrette a spostarsi dalla loro terra, l’aumento è stato costante e drammatico: 51,2 milioni nel 2013 e 59,5 milioni nel 2014 e 65,3 milioni a fine 2015.
La cifra totale comprende 3,2 milioni di persone che erano in attesa di decisione sulla loro richiesta d’asilo in Paesi industrializzati a fine 2015; 21,3 milioni di rifugiati nel mondo (1,8 milioni in più rispetto al 2014 e il dato più alto dall’inizio degli anni Novanta); 40,8 milioni di persone costrette a fuggire ma che si trovavano ancora all’interno dei confini del loro Paese (il numero più alto mai registrato, in aumento di 2,6 milioni rispetto al 2014).
Durante il 2015 oltre 12,4 milioni di individui sono stati costretti a lasciare le loro case. Di questi, 8,6 milioni di persone si sono spostate all’interno dei loro confini nazionali, mentre 1,8 milioni di persone hanno cercato protezione all’estero. Le richieste di asilo politico presentate nel 2015 sono state 2 milioni (UNHCR, 2016 a).
Per immaginare anche visivamente che cosa significano queste cifre, basti dire che i profughi oggi sono un numero maggiore all’intera popolazione del Regno Unito. Se si costituissero in Paese, sarebbero il ventunesimo Paese più popolato del mondo.
Alcune nazionalità sono state maggiormente colpite da questo esodo forzato di altre. Si stima che alla fine del 2015 siano state 11,7 milioni le persone in possesso di passaporto siriano costrette a lasciare la propria casa dall’inizio del conflitto nel 2011 (4,9 milioni i profughi fuggiti all’estero, 6,6 milioni quelli interni, più 250 mila i richiedenti asilo).
Alla fine del 2015 le altre nazionalità costrette a questa fuga forzata, sia all’interno dei confini nazionali che all’esterno, sono state (tutte con oltre 2 milioni di sfollati) quella afghana, colombiana, congolese, irachena, nigeriana, somala, sudanese, sud sudanese e yemenita.
In vent’anni i profughi sono aumentati del 75%, passando da 37,3 milioni nel 1996 ai 65,3 milioni del 2015. Di nuovo, per cercare di “visualizzare” queste cifre che non possono rimanere solo numeri, basti dire che, durante il 2015, ogni minuto, 24 persone sono state costrette ad abbandonare la loro casa.
Immigrati imprescindibili per l’economia dei Paesi sviluppati
In un articolo pubblicato nelle pagine di economia il 19 giugno 2016 sul quotidiano spagnolo “El Pais”, il giornalista David Fernandez ha affrontato il “fenomeno” dell’immigrazione da un punto di vista assai diverso da quello cui ci hanno abituato i media. Il titolo non lanciava nessun grido d’allarme, nessun pericolo di invasione; anzi, al contrario, analizzava alcuni rapporti economici e demografici pubblicati da alcune delle più importanti società e gruppi (Fernandez, 2016).
Il Rapporto The Silver Dollar – Longevity Revolution Primer realizzato da Bank of America e Merrill Lynch sostiene, tra le altre cose, che l’Unione Europea ha bisogno di ricevere annualmente per i prossimi dieci anni almeno 1,8 milioni di persone se vuole anche solo arrivare ai livelli di crescita della mano d’opera degli USA e così sperare di arrestare le prevedibili conseguenze economiche e sociali del rapido invecchiamento della popolazione europea e del basso tasso di natalità. Gli esperti sottolineano che nel 2050 la popolazione mondiale con oltre 60 anni di età raggiungerà i 2 miliardi (oggi ci sono 900 milioni di over 60). Questo invecchiamento però non sarà omogeneo e riguarderà soprattutto i Paesi più sviluppati e le economie emergenti, con la sola eccezione dell’India. Come una reazione a catena il fatto che la popolazione mondiale over 65 passerà dal 9% (nel 2010) al 19% in appena quarant’anni significherà inevitabilmente un aumento della spesa sociale (salute e assistenza).
A conclusioni simili giunge anche il Rapporto Global Aging 2016: 58 Shades Of Gray, di Standard & Poor’s. Queste previsioni offrono una lettura senza dubbio differente del “fenomeno” immigrazione e dovrebbero in realtà servire ai governi per gestire in maniera meno scellerata e allarmista il flusso di persone che ogni giorno arriva sulle nostre coste. L’immigrazione è di fatto un’opportunità per i Paesi sviluppati. Rimangono chiaramente gravi le responsabilità di questi stessi Paesi che spesso sono tra i promotori delle guerre che costringono milioni di persone a fuggire (Bank of America & Merrill Lynch, 2016; Standard & Poor’s, 2016).
Guerre senza fine: Siria e Iraq
Le guerre, e soprattutto quelle in Siria (iniziata nel 2011) e Iraq (un conflitto ininterrotto da quando, nel 2003, il Paese fu invaso per la seconda volta dagli USA, Regno Unito e dalla cosiddetta “coalizione dei volenterosi”), hanno contribuito sostanzialmente all’aumento del numero di profughi. Oltre un milione di nuovi profughi provenienti dalla Siria sono stati registrati nel 2015, portando il totale di persone che hanno cercato protezione fuori dal loro martoriato Paese a circa 5 milioni. La maggior parte di questo milione di nuovi profughi (946.800 persone) sono stati registrati in Turchia. Questa nuova ondata di arrivi ha fatto sì che la Turchia diventasse il Paese che ospita il più alto numero di profughi al mondo (circa 2,54 milioni di persone, per la maggior parte di passaporto siriano). Verso la fine del 2015 e nei primi mesi del 2016 si sono registrati spostamenti di profughi siriani dalla Turchia ad altri Paesi europei. Questo è dovuto in buona parte alle pessime condizioni in cui i profughi sono costretti a vivere in Turchia.
Difficile vedere la luce in fondo al tunnel del lungo conflitto in Siria. È evidente che qui si gioca il futuro di vecchie e nuove alleanze strategiche. A ottobre 2015 è scesa ufficialmente in campo a fianco del presidente siriano, Bashar al-Assad, la Russia, con una serie di bombardamenti (più o meno) mirati contro obiettivi dello Stato Islamico. A febbraio 2016, l’inviato speciale del Segretario Generale ONU, Staffan de Mistura, ha facilitato a Ginevra colloqui tra il governo siriano e alcuni rappresentanti della variegata e confusa opposizione. Trentacinque gruppi hanno riconosciuto la Risoluzione 2254 come la road map di un possibile e auspicabile processo di pace in Siria. I colloqui sono stati avviati ad aprile 2016, tra crisi e interruzioni. La Turchia, dal canto suo, dopo aver dato appoggio logistico e militare ai militanti dell’ISIS, ha cominciato a cambiare rotta, riavvicinandosi progressivamente al governo di Bashar al-Assad, lo stesso che aveva giurato di voler abbattere solo un anno prima. Uno degli obiettivi principali di questo riavvicinamento per la Turchia è quello di impedire ai kurdi in Siria di ottenere un’autonomia dal governo centrale. Quest’ultimo, peraltro, non sembra particolarmente interessato ad accordargliela.
A ottobre 2015, stime sicuramente per difetto, confermavano l’enorme costo umano di questa guerra: almeno 250 mila i morti, oltre 100 mila civili. Almeno 640 mila persone vivono sotto assedio, mentre 11 milioni di persone, come visto, sono state costrette a fuggire all’interno della stessa Siria o in altri Paesi. I profughi siriani residenti in 120 Paesi nel mondo sono ormai 4,9 milioni. Molti sono bambini. Nella sola Turchia ci sono almeno 665 mila minorenni siriani che non stanno frequentando la scuola (Asquith e Kayali, 2016).
Molti di questi ragazzini sono costretti a lavorare, in nero e in pessime o inesistenti condizioni di sicurezza. I settori tessile e calzaturiero sono quelli in cui maggiormente vengono impiegati bambini (Kingsley, 2016).
Grandi marche come Esprit, H&M, DeFacto, Next sono state denunciate in questi anni per l’impiego, in loro fabbriche turche, di bambini siriani (Pitel, 2016).
Quando a fuggire sono i bambini
Uno degli aspetti forse più drammatici delle guerre infinite e dell’esodo massiccio di cui il pianeta è vittima, riguarda i bambini. Vittime indifese e per questo più colpite dalle tragedie causate dal mondo degli adulti, quegli adulti che dovrebbero proteggerli. Secondo l’ONU, la metà dei profughi, alla fine del 2015 erano bambini. Il numero di minori non accompagnati che ha richiesto asilo nel 2015 è stato di 98.400: nel 2014 le domande erano state 34.300. Essendo più vulnerabili i bambini sono anche i più esposti a violazioni e abusi di ogni genere. Sarebbero almeno 26 mila i bambini non accompagnati entrati in Europa nel 2015 secondo Save the Children, che stima in un 27% del milione di profughi giunti in Europa nel 2015, la quota di minori. Secondo l’Europol, almeno 10 mila sono scomparsi dopo il loro arrivo in Europa. Molti, secondo l’agenzia di intelligenza criminale della UE sarebbero finiti in mano di organizzazioni criminali che si dedicano alla prostituzione. Il responsabile di Europol, Brian Donald, ha dichiarato all’inglese “The Observer” che «cinquemila bambini sono scomparsi in Italia, mentre mille risultano spariti in Svezia». Europol ha anche documentato un incrocio tra le organizzazioni che si dedicano al traffico umano per sfruttare uomini e donne per il mercato del sesso e la schiavitù e le organizzazioni che favoriscono e gestiscono i passaggi di migranti verso l’Europa.
Delle quasi 100 mila richieste di asilo presentate da minori non accompagnati, la maggior parte (circa un quinto del totale) sono state presentate in Svezia (35.800 domande rispetto alle 7 mila del 2014). La gran parte delle richieste è stata di minori afghani (23.600), seguiti da minori siriani (3.800), somali (2.200), eritrei (1.900) e iracheni (1.100). In Germania sono stati 14.400 i minori non accompagnati che hanno presentato richiesta di asilo nel 2015 (erano stati 4.400 nel 2014). Anche in questo caso le domande più numerose, 4.700, sono state presentate da minori afghani, seguiti da minori siriani (4 mila).
In totale sono state presentate 50.300 domande da minori afghani (erano state 8.600 nel 2014). I minori afghani con meno di 15 anni che hanno presentato domanda di asilo sono stati 14.400. Al secondo posto per numero di richieste di asilo i minori non accompagnati provenienti dalla Siria (14.800), seguiti da eritrei (7.300), iracheni (5.500) e somali (4.100) (Donald, 2016; Save the Children, 2016).
Il conflitto in Iraq non sembra allentarsi. A soffrire come sempre è soprattutto la popolazione civile. Nel 2015 ci sono stati poco meno di 20 mila morti tra la popolazione civile. Vittime della guerra contro l’ISIS, come vuole la vulgata, però la realtà parla anche di esecuzioni sommarie, autobombe, omicidi, bombardamenti, regolamenti di conti, conflitti tra le varie fazioni e gruppi iracheni. Un orrore permanente in cui l’Iraq – occorre sempre ricordarlo – è stato gettato dalla seconda invasione di Stati Uniti, Regno Unito e degli altri alleati europei. Secondo l’ONU, milizie pro-governative hanno commesso omicidi, distruzione di proprietà e hanno fatto sparire numerose persone. Da giugno 2014 sono stati 3,2 milioni gli iracheni costretti a lasciare le loro case. La scuola per 3 milioni di bambini rimane un lontano ricordo, così come, per ampi strati della popolazione l’accesso all’acqua pulita, al cibo e all’assistenza medica.
Rapporto Chilcot sull’Iraq
Il Rapporto Chilcot sulla guerra in Iraq pubblicato a luglio2016 conferma che l’allora premier Tony Blair decise di seguire gli Stati Uniti nell’invasione dell’Iraq prima che tutte le opzioni pacifiche fossero state provate. L’opzione militare, dunque, non è stata usata dal Regno Unito come ultima risorsa. Allo stesso modo, il Rapporto ribadisce che Blair esagerò deliberatamente la minaccia posta dal regime iracheno per presentare l’opzione militare come l’unica possibile davanti al Parlamento.
Il Rapporto offre anche nuove prove sulla resistenza del governo inglese a riconoscere le vittime irachene della guerra e appoggia l’idea che sia ormai giunto il momento di contribuire alla creazione di un registro delle vittime non solo della guerra in Iraq ma anche di altri conflitti in cui il Regno Unito ha partecipato. Nonostante l’ammissione di questa grave lacuna, l’inchiesta guidata da Sir John Chilcot non fa nemmeno il tentativo di dare una sua stima della sofferenza irachena (Chilcot, 2016; Kettle, 2016).
I casi Burundi e Sudan del Sud
Nel corso del 2015 almeno 221.600 persone sono state costrette a lasciare il loro Paese natale, il Burundi, a causa della guerra. Il numero così alto di profughi ha catapultato il Paese africano al secondo posto della triste classifica dei Paesi di provenienza dei nuovi profughi nel 2015. Al terzo posto è finito il Sudan del Sud (162.100 profughi nel 2015), il Paese più giovane del pianeta, nato nel 2011 dopo il referendum che ne ha sancito la separazione dal Sudan (Fisas, 2016; Oxfam, 2016).
Per quel che riguarda il Burundi, il conflitto risale al 1983 quando l’allora primo ministro di etnia Hutu viene assassinato, scatenando un ciclo di violenza che conduce alla morte di almeno 300 mila persone. I primi negoziati di pace iniziano nel 1998 in Tanzania e nel 2000 viene raggiunto un accordo di pace, che in teoria getta le basi per un governo condiviso. La guerra però non si ferma. Questa nuova ondata di violenza è stata innescata dall’elezione, per la terza volta consecutiva, di Pierre Nkurunziza, nel 2015. Dopo un fallito tentativo di golpe, il presidente ha messo da parte la Costituzione per assicurarsi il terzo mandato, (ottiene il 70% dei voti al termine di una campagna segnata da violenze e morte). Il Paese è nel caos e il rischio, ha ammonito l’ONU nel giugno 2016, è di una recrudescenza della violenza etnica che potrebbe scatenare un nuovo conflitto civile tra Tutsi e Hutu. Cento persone in media al giorno hanno attraversato il confine cercando rifugio in Tanzania, andando a ingrossare le fila dei quasi 222 mila profughi già fuggiti, nel 2015, non solo in Tanzania ma anche in Uganda, Rwanda, Repubblica Democratica del Congo, in campi sovraffollati e dove il cibo scarseggia. David Miliband, presidente di International Rescue Committee, dopo una visita al campo profughi di Nyarugusu (in Tanzania, il terzo centro profughi nel mondo, popolato in condizioni estreme da oltre 150 mila persone) ha detto che «bisognerà prepararsi per il peggio: la gente non ha né prospettive né desiderio di tornare in Burundi. Questa è una crisi che durerà anni» (Graham-Harrison, 2016).
Palestina senza pace
Sono 5,2 milioni i profughi palestinesi registrati con l’UNRWA (United Nations Relief and Works Agency). In Palestina vivono 4,5 milioni di persone e nella Striscia di Gaza 1,8 milioni. Il 70% della popolazione di Gaza è costretto a vivere di aiuti umanitari. Nella West Bank vivono poco più di 2,6 milioni di persone. Israele continua a fornire sicurezza, servizi amministrativi, casa, educazione e assistenza medica ai circa 560 mila coloni che risiedono in insediamenti illegali nella West Bank, compresa Gerusalemme est. Israele ha inoltre autorizzato la costruzione, nel 2015, di 566 nuovi insediamenti, dei quali 529 già realizzati a fine 2015. I palestinesi che vivono nell’Area C (l’area sotto controllo totale di Israele, che rappresenta il 60% della West Bank) sono soggetti a una feroce e costante repressione: hanno limitato accesso all’acqua, elettricità, scuola e altri servizi statali, oltre a subire restrizione nei movimenti e accesso, demolizione di case, trasferimenti forzati, violenza da parte dei coloni. A novembre 2015 risultavano essere state demolite da parte del governo di Israele 481 case palestinesi: 601 persone (tra cui 296 bambini) sono rimaste senza casa e costrette a trovare soluzioni di emergenza. Il Libano ospita circa 400 mila profughi palestinesi (Commissione Europea, 2016 a).
Alla fine di aprile 2016, Riek Machar, ex leader dei ribelli e vice presidente del Sudan del Sud, fa il suo rientro trionfante all’aeroporto di Juba, accolto da una folla esultante e un volo di colombe bianche, simbolo di pace. Solo due settimane più tardi le strade di Juba vengono occupate dai carrarmati, i quartieri sono sotto le bombe, centinaia di migliaia di civili sono costretti a fuggire, almeno 300 persone muoiono negli scontri e quello stesso aeroporto è chiuso e sotto attacco.
Non è facile comprendere chi combatte contro chi e perché, quello che è certo è che le truppe nominalmente fedeli al presidente Salva Kiir stanno combattendo quelle fedeli a Machar. La guerra civile iniziata nel 2013 e culminata, dopo delicati e complicati negoziati, in un accordo di pace nell’agosto del 2015, potrebbe riprendere (Burke, 2016).
Quel conflitto ha ucciso migliaia di persone. Quasi due milioni le persone costrette a fuggire dal Paese più giovane del mondo. Almeno la metà degli 11 milioni di abitanti del Sudan del Sud sono minacciati dalla fame. Va notato che si stima che la terza riserva di petrolio dell’Africa sub-sahariana si trovi proprio nel Sudan del Sud. Il Paese è sì terzo in classifica, ma per ben altre ragioni. Nel 2015, infatti, sono stati 162.100 i profughi registrati dall’ONU. Nei primi giorni di agosto 2016 si è verificata la fuga di 60 mila persone, la maggior parte (circa 52 mila) hanno cercato rifugio in Uganda (l’85% sono donne e bambini), settemila in Sudan e un migliaio in Kenya, secondo i dati forniti dall’ONU. Alla fine del 2015 i profughi provenienti dal Sudan del Sud sparsi per il mondo erano 778.700, secondo le stime dell’ONU (erano 616.200 nel 2014).
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