I migranti muoiono di freddo, Orbán ordina di arrestarli
Appena due giorni fa, il Global Risk Report aveva avvertito: le più importanti minacce globali del momento sono gli eventi climatici estremi e l’immigrazione incontrollata. Motivo? Possono aumentare l’instabilità sociale e alimentare le sirene populiste, specialmente in Europa. Nemmeno 48 ore dopo, è arrivata a dargli ragione l’Ungheria di Viktor Orbán, che si presenta come il paese istituzionalmente più razzista del continente. Accade infatti che tutto l’est sia flagellato da temperature polari e sommerso dalla neve e allo stesso tempo meta di passaggio per migliaia di profughi, soprattutto siriani, nonostante il flusso sia calato di molto dopo gli accordi tra Ue e Turchia e la chiusura delle frontiere intermedie, da quella tra Grecia e Macedonia a quelle tra Serbia e Bulgaria, fino al muro costruito dall’Ungheria alla frontiera con quest’ultima.
Per tutta risposta il governo di Budapest, che si definisce liberale ma è in realtà ultranazionalista e di estrema destra (pungolato più a destra solo dai neonazisti di Jobbik), ha annunciato ieri che arresterà tutti i migranti, compresi i richiedenti asilo. Si tratta del secondo schiaffo all’Unione europea: dopo che Orbán aveva già rifiutato qualsiasi piano di redistribuzione dei profughi, ora addirittura si prevede la detenzione di quest’ultimi, nonostante sia «contro le norme costituzionali accettate anche dall’Ungheria», come il governo ha riconosciuto, invece dell’assistenza umanitaria alla quale questi avrebbero diritto viste le rigidità del clima. In realtà non si tratta di una cosa nuova: il provvedimento, che prevede il fermo dei migranti finché non sarà esaminata la loro pratica, era stato già approvato alcuni anni fa e poi sospeso nel 20013, sotto la pressione di Bruxelles, della Corte europea dei diritti umani e delle Nazioni Unite. Ora tornerà in vigore, con il pretesto del terrorismo islamico, nel momento peggiore per i disperati che cercano di attraversare il Paese per raggiungere il Nord Europa.
Da allora, ha detto Orbán, in Europa ci sono stati sanguinosi attentati e dunque sulle regole internazionali e dell’Europa, liberamente accettate da Budapest, deve prevalere «l’interesse della nostra auto-difesa» e gli immigrati saranno tutti indistintamente trattati come clandestini.
Il premier ungherese ha sfruttato l’occasione del giuramento dei nuovi cadetti della guardia di frontiera per affermare che l’Ungheria non può affidarsi a «una soluzione qualunque» da parte dell’Ue, poiché i migranti rappresentano un rischio per la cultura e la sicurezza degli ungheresi e una minaccia sul fronte del terrorismo. «In Europa, viviamo un tempo dell’ingenuità e dell’incapacità: gli immigrati sono vittime dei trafficanti, ma anche dei politici europei, che incoraggiano la migrazione con la politica di accoglienza», ha detto. «Da noi, non ci saranno camion che investono chi festeggia», ha concluso, alludendo alle stragi di Nizza e di Berlino.
Probabilmente non sono estranee, queste parole, al nuovo corso americano di Donald Trump, che alla vigilia del suo insediamento, nella prima conferenza stampa, pochi giorni fa è tornato a chiedere il muro anti-immigrati con il Messico, pagato da quest’ultimo. Orbán, al momento in minoranza in Europa, si propone come interlocutore degli Usa trumpisti sfasciando proprio l’Unione, sperando nell’ascesa di Marina Le Pen alle prossime elezioni francese (ma non gli è andata bene in Austria con l’ultranazionalista Norbert Hofer, sconfitto dal verde Alexander Van der Bellen). Insomma, la partita sembra andare oltre la questione dei profughi, anche se lo stesso Orbán (capofila di uno schieramento di destra nazionalista e xenofoba che comprende pure polacchi e slovacchi) si trova a dover fare i conti con l’opinione pubblica interna dopo il fallimento, lo scorso autunno, del referendum anti-immigrati.
Sempre ieri, l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati ha espresso «profonda preoccupazione per la situazione di profughi e migranti in Europa», sulla quale sono calati l’ondata di gelo e maltempo e il gelo di Orbán. Nel mirino dell’Unhcr c’è però l’intera rotta balcanica, dove il flusso di migranti ha rallentato rispetto a un anno fa ma non si è arrestato del tutto: «Abbiamo rafforzato la nostra assistenza in Grecia e Serbia, tuttavia siamo estremamente preoccupati per notizie di continui respingimenti in tutti i Paesi lungo la rotta balcanica occidentale», ha affermato una portavoce, che ha sollecitato tutti gli Stati a fare di più per salvare vite. La gran parte del peso dell’assistenza è stato scaricato sulla Grecia di Alexis Tsipras, che si trova a dover fare i conti con le imposizioni della troika e con le migliaia di siriani che nessuno vuole e che il governo ungherese ora vuole addirittura arrestare. L’Unione europea per il momento rimane alla finestra.
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