Alessandro De Giorgi: Il razzismo strutturale degli Stati Uniti d’America

Alessandro De Giorgi: Il razzismo strutturale degli Stati Uniti d’America

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Intervista con Alessandro De Giorgi, a cura di Orsola Casagrande, dal 14° Rapporto sui diritti globali

Il razzismo che tuttora attraversa la società americana è sempre più di natura strutturale, cioè indipendente dalle inclinazioni più o meno discriminatorie di singoli individui, argomenta Alessandro De Giorgi, docente negli Stati Uniti presso la San Jose State University, che vede invece il fenomeno incardinato nel funzionamento stesso di istituzioni formalmente non-discriminatorie come la scuola, la giustizia penale, il sistema di welfare.

 

Redazione Diritti Globali: Il voto latino e quello afroamericano sono sempre importanti nelle elezioni americane. Come si sono modificati questi due gruppi durante l’Amministrazione Obama?

Alessandro De Giorgi: L’elezione di Barack Obama nel 2008, seguita da un secondo mandato nel 2012, ha segnato un momento simbolicamente importante nella tormentata storia delle minoranze razziali negli Stati Uniti. Sarebbe tuttavia del tutto fuorviante considerare l’accesso del primo afroamericano alla presidenza come segnale del fatto che gli Stati Uniti siano diventati, come invece tende a suggerire una certa retorica dominante, una società “post-razziale”. Sebbene in forme diverse e meno riconoscibili, poiché lontane dal tradizionale discorso razzista di tipo culturalista o differenzialista, discriminazione e disuguaglianza razziale restano un problema fondamentale negli Stati Uniti.

Pur a fronte di importanti conquiste in direzione di un più ampio riconoscimento dei diritti civili delle minoranze etniche e di genere (si pensi alla recente decisione della Corte Suprema che ha sancito la costituzionalità del matrimonio tra persone dello stesso sesso), i livelli di disuguaglianza economica e sociale che caratterizzano la società americana restano allarmanti. E tali disuguaglianze continuano a sovrapporsi con perfezione quasi geometrica alla storica linea del colore: afroamericani e latini sono infatti drammaticamente sovra-rappresentati tra la popolazione povera, tra i disoccupati e i sottoccupati, tra la forza lavoro a basso salario, tra coloro che non hanno accesso all’assistenza sanitaria, tra quanti frequentano le famigerate scuole pubbliche dei ghetti, tra chi non ha una casa o affronta condizioni abitative precarie, e soprattutto tra quanti sperimentano l’incarcerazione o subiscono la violenza della polizia. Secondo l’efficace definizione dell’attivista afroamericana Ruth Gilmore, il razzismo contemporaneo consiste nella «produzione, extralegale o sanzionata dallo Stato, della vulnerabilità di determinati gruppi sociali alla morte premature».

 

 

RDG: Un razzismo dunque sempre più strutturale?

ADG: Sì, il razzismo che tuttora attraversa la società americana è sempre più di natura strutturale, cioè indipendente dalle inclinazioni più o meno discriminatorie di singoli individui (sebbene proprio il razzismo individuale sia l’unico ad essere di fatto riconosciuto e sanzionato dalle corti di giustizia) e incardinato invece nel funzionamento stesso di istituzioni formalmente non-discriminatorie come la scuola, la giustizia penale, il sistema di welfare, eccetera. Si tratta inoltre di un razzismo colorblind, ossia formalmente scevro da qualsiasi riferimento al colore e ancorato invece a condizioni sociali o status teoricamente ascrivibili a comportamenti devianti dei soggetti stigmatizzati – per esempio tramite l’etichetta di “criminale”, “teenager problematico”, “famiglia disfunzionale” o “immigrato illegale” – che consentono una razzializzazione indiretta dei gruppi sociali più vulnerabili. In questo senso appare innegabile che l’incarcerazione di massa – oggi uno dei principali problemi sociali degli Stati Uniti – abbia rappresentato un formidabile strumento repressivo di cui l’élite di potere del Paese si sono servite nel corso degli ultimi quarant’anni per riaffermare la loro supremazia razziale e di classe nell’era post-diritti civili. Come scrive Michelle Alexander, l’autrice afroamericana di The New Jim Crow, vero e proprio best-seller sul rapporto tra incarcerazione di massa e questione razziale: «La sovrapposizione tra blackness e criminalità non è avvenuta naturalmente; piuttosto, essa è stata costruita dall’élite politiche e mediatiche come parte del grande progetto politico noto come guerra alla droga. Tale sovrapposizione è servita a fornire un canale ammissibile per l’espressione di sentimenti razzisti – un’opportuna valvola di sfogo ora che le forme esplicite di discriminazione razziale sono fermamente condannate. Nell’epoca del razzismo colorblind non è più consentito odiare i neri, ma possiamo odiare i criminali. Anzi, siamo incoraggiati a farlo» (p. 79). Sebbene il lavoro di Alexander si riferisca specificamente alla traiettoria storica degli afroamericani, le sue considerazioni si applicano anche alla condizione dei latinos, a loro volta destinatari privilegiati delle strategie punitive dello stato penale americano.

 

RDG: Strategie punitive che si sono sempre più appoggiate sul carcere…

ADG: Infatti: non è difficile comprendere come la drammatica espansione carceraria degli ultimi decenni abbia contribuito a ridisegnare la geografia delle disuguaglianze sociali negli Stati Uniti, attraverso due dinamiche in apparenza opposte ma di fatto convergenti nell’approfondire il solco razziale e di classe che divide la società americana. La prima dinamica è quella che ha visto la crescita esponenziale della popolazione carceraria distorcere artificialmente l’immagine ufficiale della questione razziale e di classe negli Stati Uniti. Il confino di massa all’interno della gigantesca macchina penale e carceraria statunitense fa infatti letteralmente scomparire dalle statistiche ufficiali una vasta popolazione di colore disoccupata, precaria, priva di istruzione secondaria e di fatto esclusa dall’accesso ai diritti civili, politici e sociali, generando così gravi distorsioni negli indicatori ufficiali della disuguaglianza sociale. La principale conseguenza di questa invisibilità sociale sanzionata dallo Stato, che si colloca lungo un continuum storico di abbandono istituzionale degli afroamericani risalente all’era della schiavitù, è di gonfiare artificialmente gli indicatori ufficiali di progresso razziale in diversi ambiti: dall’istruzione all’occupazione, dai livelli salariali alla partecipazione al voto. In ciascuna di queste aree, l’invisibilità della povertà razzializzata, in congiunzione con l’elevata visibilità di alcuni casi celebri di ascesa sociale – come la presidenza Obama o la nomina della latina Sonia Sotomayor alla Corte Suprema – permettono alla narrazione dominante sulla società post-razziale di mantenere la propria egemonia.

Ma al tempo stesso in cui ne offusca le statistiche ufficiali, l’incarcerazione di massa contribuisce ad alimentare di fatto la disuguaglianza, producendo conseguenze catastrofiche in particolare tra gli afroamericani e i latini che risiedono nelle aree urbane più svantaggiate. La criminalizzazione di massa di un’intera generazione di giovani afroamericani e latini privi di istruzione secondaria ha infatti contribuito in modo determinante a perpetuare la marginalizzazione economica non solo di quanti restano direttamente impigliati nella rete del sistema penale, ma anche delle loro famiglie e comunità di provenienza. La presenza costante della prigione nelle vite dei giovani maschi poveri e di minoranza getta così la rete dello Stato penale sulle rispettive famiglie, distruggendo matrimoni, eliminando padri, traumatizzando bambini e impoverendo ulteriormente famiglie costrette ad affrontare l’alto costo di avere qualcuno dietro le sbarre. In congiunzione con il massiccio afflusso degli ex-detenuti rilasciati quotidianamente dal sistema penitenziario americano, l’incarcerazione di massa proietta dunque la violenza istituzionale dello Stato penale sui ghetti urbani dai quali è reclutata la maggior parte della popolazione carceraria, generando instabilità familiare, insicurezza economica, disimpegno civile, esclusione politica, povertà segregata, dispersione scolastica e violenza interpersonale.

 

RDG: A questo bisogna aggiungere le difficoltà per chi, ex detenuto, cerca di rientrare nel mercato del lavoro.

ADG: Sì, gli ostacoli che si frappongono agli ex detenuti che tentano di rientrare – o, più spesso, di fare ingresso per la prima volta – nella forza lavoro dopo l’incarcerazione, non fanno che aggravare ulteriormente la marginalizzazione delle comunità urbane maggiormente colpite dall’incarcerazione di massa. Marchiati in modo permanente dallo stigma di una condanna penale, dalla mancanza di istruzione e da forme pervasive di discriminazione strutturale, milioni di residenti dell’inner city americana si ritrovano così confinati nei settori più vulnerabili del mercato del lavoro a basso salario, costretti a competere senza tregua con altri gruppi sociali marginalizzati – in particolare, la forza lavoro migrante illegalizzata da politiche proibizioniste sull’immigrazione – sperimentando la violenza senza limiti dell’“accumulazione per espropriazione” di cui parla David Harvey. Al di là dei singoli episodi di violenza omicida della polizia a danno di giovani afroamericani, sono proprio queste dinamiche strutturali di oppressione razziale e di classe a spiegare le recenti ribellioni nei ghetti urbani statunitensi.

 

RDG: Quanto grande e importante è il business della sicurezza negli USA (carceri, centri di detenzione)?

ADG: Negli ultimi decenni l’incremento della spesa pubblica per il sistema penale e carcerario negli USA è stato sorprendente. Solo tra il 1980 e il 2010 la spesa complessiva per la sicurezza è passata da 17 a 80 miliardi di dollari; nello stesso periodo la spesa correzionale pro-capite è aumentata del 250%, passando da 77 dollari per residente nel 1980 a 260 nel 2010. Secondo dati recenti, il costo medio dell’incarcerazione si aggira sui 31.000 dollari l’anno per detenuto, da moltiplicare per una popolazione carceraria totale di oltre 2 milioni di persone. A partire dall’inizio degli anni Ottanta, all’inizio della lunga stagione neoliberista negli USA, la costante crescita della spesa correzionale ha attirato un’ampia schiera di attori privati specializzati nel business dell’incarcerazione privata e dei “servizi” a essa associati, come l’assistenza sanitaria, i servizi telefonici, il trasporto, l’approvvigionamento alimentare, eccetera. Negli ultimi trent’anni, imprese multinazionali quali Corrections Corporation of America (CCA) e GEO Group hanno esercitato una sistematica azione di lobby nei confronti dei legislatori federali e statali per ottenere accesso al lucrativo business dell’incarcerazione for profit. Grazie anche alla perenne crisi fiscale degli Stati e delle amministrazioni locali, queste imprese sono riuscite a stabilire un grosso mercato di servizi carcerari, specialmente a livello federale e in Stati come la Florida, il Texas, il New Mexico, la Georgia e la California. Quanto più i costi dell’incarcerazione di massa venivano sostenuti dai contribuenti nella forma di tagli al welfare, alla sanità, all’istruzione e ad altri servizi pubblici, tanto più il business delle prigioni private faceva presa sul sistema politico con la promessa di ridurre i costi del sistema penitenziario. Solo tra il 2000 e il 2013 il numero di prigionieri federali detenuti in istituzioni private è cresciuto del 165%, facendo passare dal 10 al 19% la frazione di prigionieri federali detenuti for profit; nello stesso periodo, il numero di detenuti “privatizzati” a livello statale è aumentato del 34%. Nel 2012, dopo diversi anni di continua espansione, CCA poteva contare su 91.000 posti-letto in 21 Stati, mentre GEO Group ne contava 65.700. In totale, il numero di posti-letto in istituzioni carcerarie private negli Stati Uniti è più alto della popolazione carceraria di Francia e Germania.

Tuttavia, nonostante questa crescita, nel complesso la percentuale di detenuti reclusi in istituzioni private è piuttosto limitata. Negli Stati Uniti, come nel resto del mondo occidentale, l’inflizione della pena privativa della libertà è tuttora una prerogativa sovrana dello Stato: più del 90% della popolazione carceraria statunitense è infatti detenuta in istituzioni pubbliche. In questo senso ha ragione il criminologo americano Loïc Wacquant nel sostenere che «anche qualora gli imprenditori della detenzione privata scomparissero da un giorno all’altro […] l’incidenza e la fisionomia dell’incarcerazione rimarrebbero inalterate». In altri termini, il profitto dei privati non può essere considerato la causa principale dell’avvento dell’incarcerazione di massa negli Stati Uniti. Piuttosto, trent’anni di espansione carceraria ininterrotta hanno contribuito a trasformare gli imprenditori della pena in un vero e proprio blocco di potere economico e politico che oggi si frappone a qualsiasi progetto di decarcerazione della società americana. Inoltre, in un clima politico dominato dalla retorica del contenimento dei costi, questi attori economici sono in grado di proporre modelli di privatizzazione penale che potrebbero, da una parte, favorire modeste riduzioni della popolazione detenuta – per esempio mediante la creazione di servizi privati di riabilitazione post-carceraria, disintossicazione dalle droghe, o sorveglianza elettronica – e, dall’altra, contribuire di fatto a estendere la rete del controllo penale. Infatti, l’idea di una gestione privata dei programmi di reinserimento sociale, trattamento riabilitativo e reintegrazione sociale dei detenuti potrebbe essere accolta con maggior favore dalle amministrazioni pubbliche (e dalla stessa cittadinanza), proprio perché tali attività possono essere presentate come “servizi” anziché come vere e proprie sanzioni penali.

 

RDG: Dove si mette in pratica questa idea?

ADG: Il settore in cui queste dinamiche sono già emerse è quello della detenzione amministrativa dei migranti. Nel 2013, circa 441.000 migranti irregolari erano stati detenuti dall’ice (Immigration and Customs Enforcement), l’agenzia federale responsabile del controllo dell’immigrazione, mentre quasi la metà dei posti-letto nei centri di detenzione era fornita da strutture private. Non deve dunque sorprendere il fatto che la detenzione dei migranti irregolari rappresenti oggi una delle aree più promettenti per le strategie di mercato delle multinazionali dell’incarcerazione come CCA e GEO Group. Questi sviluppi sono stati agevolati dalla finzione giuridica secondo la quale la detenzione dei migranti non costituisce una sanzione penale, ma semplicemente una misura amministrativa finalizzata alla deportazione; per questo, i migranti trattenuti nei centri di detenzione (e persino i migranti detenuti nei penitenziari federali e nelle prigioni di contea in attesa di deportazione), non sono considerati prigionieri, bensì semplicemente “detenuti civili”. Questo punto di vista è stato peraltro ribadito più volte dalle Corti di giustizia degli Stati Uniti, nonostante le innumerevoli prove del fatto che il trattamento cui sono soggetti i migranti nei centri di detenzione – negli Stati Uniti come nel resto del mondo occidentale – sia peggiore delle condizioni (già disumane) imposte ai detenuti delle prigioni ordinarie, a causa del cibo insufficiente, dei frequenti abusi da parte dello staff, dell’assenza di assistenza medica e del frequente ricorso all’isolamento.

 

RDG: Che cosa rimane irrisolto nella relazione tra polizia e cittadini (afroamericani, latini, ma non solo)?

ADG: Secondo le statistiche pubblicate dell’FBI, nel 2014 il numero ufficiale di omicidi di civili da parte della polizia era stato pari a 444. Tuttavia questa cifra sottostima la reale dimensione del fenomeno, in quanto i dipartimenti di polizia non sono tenuti per legge a riportare queste statistiche, tanto che secondo stime recenti meno della metà di questi le fornisce annualmente all’FBI. In ogni caso, i giovani afroamericani sono drammaticamente sovra-rappresentati tra le vittime della polizia: sulla base di dati raccolti dal gruppo di ricerca indipendente Mapping Police Violence, il reale numero di omicidi di civili per mano della polizia sarebbe stato di circa 1.100 (di cui almeno 346 afroamericani) nel 2015, mentre solo nei primi sei mesi del 2016 ben 160 donne e uomini afroamericani sono stati uccisi dalle forze dell’ordine. Secondo lo stesso gruppo di ricerca, il rischio di morire sotto i colpi della polizia è tre volte più alto per un maschio afroamericano che per un bianco, e mentre il 30% delle vittime afroamericane erano disarmate, la percentuale per i bianchi scendeva al 19%. Ma il dato più sconcertante è che nel 2015, in 17 delle 100 principali città statunitensi il tasso di omicidi di cittadini afroamericani maschi da parte della polizia era più elevato del tasso di omicidi complessivo negli Stati Uniti.

Sebbene la violenza istituzionale somministrata quotidianamente dalla polizia ai settori più marginali della popolazione che risiede nei ghetti americani passi in genere inosservata, com’è noto, negli ultimi anni, alcuni episodi di violenza poliziesca hanno scosso la coscienza dell’opinione pubblica statunitense. Questo è quanto è avvenuto in occasione di una serie di omicidi fortemente mediatizzati di giovani afroamericani: dall’esecuzione di Oscar Grant a una fermata della metropolitana di Oakland il 31 dicembre 2009 al soffocamento letale di Eric Garner a New York il 17 luglio 2014; dall’uccisione di Michael Brown a Ferguson, Missouri, il 9 agosto 2014 a quella del dodicenne Tamir Rice a Cleveland il 22 novembre 2014; dall’assassinio di Walter Scott a North Charleston il 4 aprile 2015 alla morte di Freddy Gray a Baltimora il 19 aprile 2015; dall’uccisione di Alton Sterling a Baton Rouge il 5 luglio 2016 all’esecuzione di Philando Castile a St. Paul, Minnesota, il giorno dopo.

 

RDG: Questi eclatanti episodi di violenza poliziesca contro la comunità afroamericana hanno suscitato in tutti gli Stati Uniti una vasta ondata di protesta…

ADG: Assolutamente e la principale organizzazione è senz’altro il movimento #BlackLivesMatter, nato in risposta all’assassinio del diciassettenne afroamericano Trayvon Martin per mano del vigilante George Zimmerman in una gated community di Sanford, Florida, il 26 febbraio 2012. Le rivendicazioni avanzate dalle organizzazioni che animano questo movimento includono prima di tutto la richiesta che gli agenti di polizia responsabili di violenza letale su civili inermi siano perseguiti dalla giustizia penale – dal momento che nel 97 per cento dei casi questi omicidi non portano neanche alla formulazione di un’ipotesi di reato – e poi riforme quali la smilitarizzazione della polizia, la cessazione delle pratiche discriminatorie di fermo e perquisizione (stop and frisk), l’adozione di linee guida per ridurre l’uso della forza, la decriminalizzazione delle cosiddette “inciviltà urbane” quali il vagabondaggio, l’ubriachezza molesta, i graffiti o la prostituzione, e infine la richiesta che gli agenti indossino telecamere in grado di registrare tutte le interazioni tra polizia e cittadini.

Tuttavia, queste riforme rischiano di avere effetti quasi esclusivamente cosmetici in quanto non affrontano alla radice il problema della vera e propria “colonizzazione” poliziesca della metropoli statunitense – dalle scuole ai campus universitari, dai centri commerciali alle aree residenziali – volta presidiare le linee del colore (e di classe) che solcano lo spazio urbano. Si tratta peraltro di una colonizzazione urbana che non coinvolge solo la polizia, ma anche i servizi di sicurezza privata, le tecnologie di sorveglianza elettronica e la stessa cittadinanza (organizzata nel modello del neighborhood watch e di altre forme di vigilantismo, comprese quelle virtuali che proliferano sempre più sui social media di quartiere). Questa condizione è il risultato di diversi decenni di “governo della paura”, per citare il titolo di un recente libro del criminologo americano Jonathan Simon: una forma di governo fondata sulla ciclica produzione di ondate di “panico morale” nei confronti di una criminalità urbana sistematicamente declinata secondo chiare coordinate razziali e di classe. In definitiva, la sensazione è che solo un processo di radicale democratizzazione delle forze dell’ordine mediante un modello di reale cogestione comunitaria degli obiettivi, delle priorità e delle pratiche di polizia nella metropoli possa ridurre i livelli di violenza strutturale che caratterizzano il rapporto tra polizia e minoranze razziali negli Stati Uniti.

 

RDG: Passiamo alla politica dell’immigrazione USA: come la valuti, quali le prospettive?

ADG: Secondo i dati dell’autorevole Pew Research Center, nel 2014 il numero di migranti irregolari presenti sul territorio degli Stati Uniti era di oltre 11 milioni di persone, circa metà delle quali di origine messicana. La presenza di migranti undocumented si concentra soprattutto in sei Stati – California, Texas, Florida, New Jersey, New York e Illinois – i quali “accolgono” circa il 60 per cento di questa popolazione; inoltre, secondo lo stesso istituto di ricerca, la manodopera migrante “illegale” costituirebbe circa il 5 per cento della forza lavoro statunitense – ma con punte fino al 10 per cento in California, Texas e Nevada. Come in altri Paesi occidentali, anche negli Stati Uniti interi settori economici – dalle costruzioni all’agricoltura, dai servizi alla persona alla ristorazione – si bloccherebbero qualora i flussi di immigrazione da lavoro, compresi quelli irregolari, si interrompessero da un giorno all’altro. A partire almeno dalle mobilitazioni di massa del 2006, quando milioni di migranti occuparono le strade delle principali città statunitensi, da Chicago a Los Angeles, per protestare contro la criminalizzazione dell’immigrazione clandestina e invocare misure di regolarizzazione per i migranti senza documenti, la questione ha acquisito una crescente centralità nel dibattito pubblico statunitense. In questo senso, di fronte alla sostanziale inerzia del Congresso, una parte della classe imprenditoriale invoca ormai da anni misure di alleggerimento delle politiche sull’immigrazione che assicurino un flusso sufficiente di forza lavoro migrante destinata a riempire quei settori del mercato del lavoro che la forza lavoro locale è indisponibile a occupare, senza che tuttavia vengano riconosciuti alla popolazione immigrata diritti e protezioni tali da pregiudicare il vantaggio competitivo dato dalla presenza di questo vasto esercito industriale di riserva. A fronte di questa complessa situazione, il sistema politico statunitense oscilla tra posizioni di oltranzismo nativista (soprattutto da parte dei Repubblicani eletti negli Stati di confine) e professioni di astratta apertura verso l’ipotesi di un cambiamento strutturale della politica sull’immigrazione, cui tuttavia raramente hanno fatto seguito concreti progetti di riforma legislativa. Di quest’ambivalenza, a sua volta riflesso di una continua frizione tra istanze economiche di medio termine e contingenze politiche di breve periodo, la politica sull’immigrazione perseguita dall’Amministrazione Obama è stata una chiara espressione.

 

RDG: In che senso?

ADG: Da una parte, l’Amministrazione Obama passerà alla storia per aver effettuato il più alto numero di deportazioni di qualsiasi Amministrazione presidenziale nella storia degli USA, un record che se non è bastato a soddisfare le ali più xenofobe della destra, è tuttavia valso al presidente il titolo poco edificante di deporter in chief. Dall’altra parte, va ricordato che durante il suo secondo mandato Obama ha cercato di rispondere alle dure critiche rivolte alla sua Amministrazione dall’ampia fetta di elettorato latino, che ne aveva di fatto garantito la rielezione nel 2012, emanando un ordine esecutivo destinato a regolarizzare temporaneamente la presenza sul suolo statunitense di circa quattro milioni di migranti irregolari. Com’era prevedibile, quest’ordine esecutivo è stato in seguito bloccato da una Corte federale su iniziativa di un gruppo di Stati contrari a qualsiasi forma di regolarizzazione dei migranti; infine, il 23 giugno 2016 la Corte Suprema degli Stati Uniti ha confermato la decisione della Corte federale, sospendendo così gli effetti dell’ordine esecutivo e rievocando lo spettro della deportazione per milioni di persone.

A questo punto, con una delle più controverse elezioni presidenziali degli ultimi decenni alle porte (e con i due rami del Congresso saldamente nel controllo del Partito Repubblicano) le probabilità che una riforma complessiva delle politiche sull’immigrazione abbia effettivamente luogo sono alquanto limitate. In particolare, nell’ipotesi che a vincere la presidenza sia Hillary Clinton, è lecito attendersi che l’ostruzionismo parlamentare che ha così spesso immobilizzato la presidenza Obama prosegua senza sosta, lasciando alla neo-presidente solo i margini per interventi ad hoc e di natura emergenziale sul tema dell’immigrazione. Nell’ipotesi che invece il prossimo presidente eletto sia Donald Trump, tralasciando per il momento le soluzioni estreme prospettate dal candidato repubblicano, quali la costruzione di un muro tra Stati Uniti e Messico, la schedatura di tutti gli immigrati islamici o la deportazione di tutti gli immigrati “illegali”, lo scenario più probabile sembra essere quello di una sostanziale delega della politica sull’immigrazione alle forze dell’ordine federali, con una probabile ripresa dei raid dell’ICE sui luoghi di lavoro che impiegano forza lavoro migrante e una sensibile svolta xenofoba nel discorso pubblico americano.

 

*****

Alessandro De Giorgi: è Associate Professor presso il Department of Justice Studies, San Jose State University, USA. I suoi principali interessi di ricerca riguardano le teorie critiche della pena e del controllo sociale, l’etnografia urbana e la critica dell’economia politica. Tra i suoi lavori, Zero Tolleranza. Strategie e pratiche della società del controllo (DeriveApprodi, 2000), Il governo dell’eccedenza. Postfordismo e controllo della moltitudine (ombre corte, 2002), Traiettorie del controllo. Riflessioni sull’economia politica della pena (Rubbettino, 2005) e Rethinking the Political Economy of Punishment: Perspectives on Post-Fordism and Penal Politics (Ashgate, Aldershot 2006).



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