Monica Di Sisto: Il TTIP e i pirati del mercato globale

by Alberto Zoratti, 14° Rapporto sui diritti globali | 14 Gennaio 2017 8:32

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Intervista a Monica Di Sisto, a cura di Alberto Zoratti, dal 14° Rapporto sui diritti globali

Monica Di Sisto, vicepresidente di Fairwatch, è la portavoce in Italia della Campagna Stop TTIP: una iniziativa nata dal basso e dai territori che sta riuscendo a inceppare la potentissima macchina delle lobby e delle multinazionali che vorrebbero rimuovere ogni limite e controllo al mercato e al commercio internazionale. Per Di Sisto, la macchina della globalizzazione, governata dalla grande finanza responsabile della crisi in corso, è ormai strutturalmente inceppata e dedita unicamente alla speculazione e a «raschiare il fondo del barile» attraverso una deregolamentazione che si traduce in vulnerazione profonda dei diritti sociali, ambientali e umani dei cittadini e dei popoli. Una situazione alla quale occorre opporsi con determinazione: riorganizzando produzioni e consumi a partire dai territori e dalle loro vocazioni, ma anche facendo pressione su governi e istituzioni locali affinché produzione, distribuzione, commercio e consumi rispondano a criteri di responsabilità e compatibilità sociale e ambientale.

 

 

Rapporto sui Diritti Globali: «Nonostante gli siano stati sacrificati redditi e interi sistemi industriali, compreso quello italiano, il commercio globale è in frenata da anni: non sarà il caso di arrendersi all’evidenza che i mercati, per come sono organizzati oggi intorno al mito della competitività, non funzionano, e che bisogna riorganizzarli intorno ai bisogni e ai diritti delle comunità e dell’ambiente in cui vivono?» Come arrivi a quest’analisi?

Monica Di Sisto: Con un’osservazione abbastanza semplice dei dati: da più di tre anni l’Organizzazione Mondiale del Commercio è costretta, ogni 3-6 mesi, a rivedere al ribasso le sue stesse proiezioni di crescita degli scambi internazionali. I mercati si sono organizzati in base ai suoi dettami, riarticolando la produzione lungo filiere internazionali che vanno a caccia delle funzioni che gli servono – dalla materia prima all’energia, al lavoro – in tutto il mondo, in base a quelle che costano meno, tanto che fino all’80% dei passaggi che merci e servizi fanno da Paese a Paese avviene all’interno delle stesse filiere. Questa trasformazione porta con sé violazioni dei diritti umani, sociali e ambientali crescenti e di gravità inaudita, redditi sempre più bassi, una disoccupazione in aumento e desertificazione produttiva nei Paesi con regole e diritti più tutelati, una conseguente maggiore pressione verso la deregolamentazione e una qualità stessa dei prodotti e dei servizi discutibile. Il risultato è una crescita del commercio e del benessere diffuso, come pure sostenevano dalla fine degli anni Novanta i profeti di questo modello di globalizzazione? Assolutamente no. Gli scambi frenano, il PIL crolla anche nei Paesi ex emergenti, l’instabilità sociale e geopolitica crescono ovunque.

 

RDG: Perché la ricetta dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) sembra non funzionare?

MDS: Ce lo dice la stessa WTO e da molti anni: la crisi dei consumi industriali e finali in Europa, provocata dalla delocalizzazione dei sistemi produttivi europei in giro per il mondo e dalla conseguente deindustrializzazione e depressione anche dell’occupazione nei nostri Paesi, non è stata compensata da una crescita della stessa qualità nei Paesi emergenti. È cresciuta la finanza, la speculazione, non la qualità dell’economia reale. C’è una forte sovrapproduzione a livello globale, a prezzi stracciati e a costi altissimi a livello sociale e ambientale, e sempre meno acquirenti, industriali e finali. Il risultato è che la macchina della globalizzazione è strutturalmente inceppata e guadagna solo con l’economia illegale e la speculazione, che crescono esponenzialmente anche con la scusa della crisi.

 

RDG: C’è un esempio che potremmo fare per rendere la cosa più comprensibile anche per i non addetti ai lavori?

MDS: Pensiamo a un prodotto agricolo tipico italiano vincente come il parmigiano, sempre più conosciuto e sempre più esportato in tutto il pianeta. Fino a qualche anno fa tutta la sua filiera concentrava nelle regioni che lo producevano lavoro e grande capacità produttiva: dal campo in cui si coltivava l’erba medica, alle aziende che la mettevano a disposizione degli allevatori, alle stalle dove venivano selezionate e cresciute le mucche, alle aziende in cui si produceva il latte, fino a quelle in cui si tramutava in forme, a quei consorzi che organizzavano la produzione e la promuovevano. Oggi le mucche, spesso nate e in parte allevate in altri Paesi dove costa meno farlo, mangiano per lo più soia OGM brasiliana e vengono allevate da manovalanza migrante pagata con i voucher. Il prezzo del latte in picchiata ha fatto chiudere molti piccoli e medi produttori nazionali e per le forme non certificate il latte arriva da chissà dove. Nonostante crescano costantemente le esportazioni di parmigiano, insomma, il numero delle forme prodotte e i prezzi al chilo calano, perché crollano i consumi interni, in quanto italiani ed europei non possono più permetterselo. Se alcune grandi aziende produttrici continuano a far profitti, avendo perso molta parte dell’indotto hanno perso i loro primi consumatori, i vicini di casa, e la maggior parte dei nuovi consumatori che possono conquistare fuori dal nostro Paese sono delle nuove classi medie dei Paesi emergenti, il cui reddito medio e abitudini alimentari però non li porteranno mai, nel medio-lungo termine, a sostituire i vicini di casa perduti. Lo aveva capito Henry Ford, nel secolo scorso, che per consolidare il suo impero si assicurava innanzitutto che i propri operai, con quello che guadagnavano con lui, potessero permettersi di comprare le automobili che producevano. I nostri veterocapitalisti no: inventano addirittura nuove alchimie negoziali per poter continuare a raschiare il fondo di quel barile che li intrappolerà comunque, e noi con loro, se non riusciremo a fermarli e a cambiare la ragione ambientale e sociale delle loro aziende.

 

RDG: I trattati commerciali cosiddetti di ultima generazione come il TTIP, il CETA e il TISA, dunque, fanno parte di questo loro disegno?

MDS: Assolutamente sì: sono coerenti con la necessità primaria di questo modello di riorganizzazione della produzione e dei mercati che è di spianare la strada che i segmenti della filiera incontrano rimbalzando da Paese a Paese. Sappiamo che, ad esempio, che circa l’80% dei cosiddetti benefici che un Trattato come il TTIP potrebbe portare agli scambi transatlantici, rendendoli più fluidi, non arriverà dall’abbattimento delle barriere commerciali, ma dal cambiamento delle regole di produzione e di distribuzione oggi vigenti. In parole povere: se vorremo più merci e più servizi, dovremo chiudere gli occhi su come sono fatti e su come ci arrivano. È chiaro che in questa partita ci giochiamo un po’ di più di semplici condizioni commerciali. Un Ipad, ad esempio, ha al suo interno componenti, passaggi produttivi e servizi che appartengono a oltre trenta Paesi. Se questi ultimi hanno regole sempre più simili, meno stringenti e, dunque, poco costose, tutto di guadagnato per chi assembla il prodotto finale e, stando alle proporzioni attuali, intasca oltre il 70% del prezzo che il consumatore sborsa. Se, dunque, la produzione si concentra intorno a pochi “registi” che in ogni settore, come nuovi veri pirati del mercato globale, si procacciano in condizioni di semi-monopolio i fattori di produzione che, in tempo reale, gli garantiscano le condizioni più vantaggiose, quegli stessi – pochi – leader del mercato globale spingeranno perché cambi il modo stesso di fare le regole in quei pochi spazi nei quali ancora, seppur parzialmente, si cerca di deciderle con modalità democratiche. L’assedio vero e proprio che l’Europa subisce a Bruxelles, con oltre 50 mila lobbisti residenti in pianta stabile che premono perché Commissione Europea e membri del Parlamento li incontrino e soddisfino le loro esigenze, è l’immagine plastica di questa deriva.

RDG: E allora che possono fare i cittadini? Che potere hanno per ostacolare questa deriva?

MDS: Innanzitutto capire che cosa sta succedendo, e poi reagire. La Campagna italiana sul TTIP si è articolata in oltre 50 comitati locali proprio perché, incontrando associazioni, sindacati, ma anche gruppi di cittadini semplicemente preoccupati o incuriositi da quanto sta succedendo, ha proposto loro di capire come sta cambiando o sia cambiato il proprio territorio e come intervenire a partire da esso. L’Italia è piena di eccellenze produttive, ma anche paesaggistiche e culturali che si sono perse o si stanno perdendo per la ragione superiore della convenienza, dell’economia, addirittura con la scusa della crisi. Dobbiamo opporci: riorganizzare produzioni e consumi a partire da chi siamo, dalle vocazioni dei nostri territori, aiutare le istituzioni locali ad aprire gli occhi perché al posto del criterio della competizione tutto venga riorganizzato lungo le due direttrici della complementarietà e della compatibilità a livello sociale, ambientale ed economico. Le nostre comunità, dal livello nazionale a quello europeo, devono smettere di farsi una costante guerra al ribasso ma capire invece come potersi organizzare a partire da ciò che abbiamo: uno spazio comune in cui il mercato deve diventare strumento di un’integrazione delle diverse vocazioni territoriali a partire da regole che lo delimitino e lo qualifichino, e non che lo degradino e lo svendano alimentando la crisi che esse stesse hanno contributo a provocare. Per fare questo dobbiamo smettere di delegare: per troppi anni abbiamo esercitato la nostra cittadinanza solo col voto, o con la rinuncia al voto. Non serve. Dobbiamo capire in prima persona che succede, attivarci, azzerare la distanza tra politica istituita e la nostra vita quotidiana che deve essere “politica” perché consapevole. Se i lobbisti assediano Bruxelles, dobbiamo farlo anche noi, partendo dai municipi, i consigli comunali, fino ai nostri parlamenti: analizziamo, premiamo, scriviamo, usiamo i social. Per spiegare che cosa stiamo facendo nei territori, e che cosa dobbiamo fare insieme.

 

RDG: A cosa si dovrebbe puntare, a livello istituzionale e più in generale, per cambiare rotta?

MDS: Gli Stati Uniti e la Cina stanno già contravvenendo ai dettami classici della globalizzazione: stanno affrontando la crisi puntando sul mercato interno, su una regolazione più stringente della finanza e sulla concentrazione degli investimenti in un rafforzamento della struttura produttiva intra muros: perché l’Europa si ostini a percorrere vecchie strade senza uscita, abbandonate da tutti, resta un mistero. La nuova strategia commerciale della Commissione Europea si intitola “Trade for all”, cioè “Commercio per tutti”, ma alla fine ripropone la vecchia minestra che ormai ha stufato anche quei pochi che hanno continuato ad abbuffarcisi alle nostre spalle anche in questi anni di crisi. Alfred De Zayas, che è il relatore indipendente incaricato dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite di capire come promuovere un sistema internazionale equo e democratico, propone che si passi dal “diritto a proteggere” i diritti umani sancito dalle Convenzioni internazionali alla “responsabilità di agire”, a tutti i livelli di governo e di cittadinanza «per proteggere e promuovere attivamente i diritti civili, culturali, economici, politici e sociali». Una visione olistica di azione politica in cui governi, parlamenti e tribunali hanno pari responsabilità di agire nell’interesse pubblico per la stabilità economica come per lo sviluppo sociale, la sostenibilità ambientale, la sicurezza alimentare, il miglioramento degli standard di salute e del lavoro. Questo deve avvenire in modo coerente con le leggi ma anche attraverso la tassazione, con misure di precauzione e di prevenzione contro i pericoli degli organismi geneticamente modificati, il fracking, le miniere a cielo aperto, i pesticidi, l’inquinamento dell’aria e dell’acqua, la corruzione, come anche contro i monopoli e l’asimmetria del commercio. Tali obblighi di governo sono la ragion d’essere della società organizzata, sottolinea De Zayas, e ce ne dobbiamo convincere: siamo noi, persone e popoli, i titolari dei diritti della responsabilità di agire; governi, parlamenti e tribunali gli attuatori. Se non li stanno attuando, la responsabilità è nostra: dobbiamo assumercela collettivamente e cambiare le cose. Con le campagne come Stop TTIP stiamo provando a farlo.

 

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Monica Di Sisto: è giornalista professionista ed è vicepresidente di Fairwatch, osservatorio italiano sui negoziati commerciali e climatici, per il quale partecipa a incontri istituzionali con il ministero per lo Sviluppo Economico e con la DG Trade della Commissione Europea.

Da quasi tre anni è la portavoce della Campagna Stop TTIP in Italia, la rete di oltre duecento organizzazioni che è riuscita a riportare il commercio nel cuore della riflessione dei movimenti e della politica italiana circa vent’anni dopo Seattle.

È autrice di diverse pubblicazioni, tra cui: WTO. Dalla dittatura del mercato alla democrazia mondiale (con Alberto Zoratti e Roberto Bosio, EMI, 2005); Un commercio più equo (Altreconomia, 2012) e I Signori della Green Economy. Neocapitalismo tinto di verde e Movimenti glocali di resistenza (con Alberto Zoratti, EMI, 2013) e Nelle mani dei mercati. Perché il TTIP va fermato (con Alberto Zoratti e Marco Bersani, EMI, 2015).

 

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