Gavino Maciocco: Salute globale, un mercato lucroso in espansione

by Susanna Ronconi, 14° Rapporto sui diritti globali | 19 Gennaio 2017 8:26

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Intervista a Gavino Maciocco, a cura di Susanna Ronconi, dal 14° Rapporto sui diritti globali

 

La governance politica, nazionale e globale, della salute sconta più che mai la sua debolezza a fronte dei potenti processi macroeconomici che stanno spingendo l’acceleratore verso l’estensione del mercato in ambito sanitario. Anche quando alcuni esiti negativi di questo processo sono evidenti – come nel Regno Unito, dove il ventennale processo di commercializzazione dei servizi sanitari ha dato prova di esiti fallimentari anche sotto il profilo economico e della sostenibilità del sistema – le scelte dei governi si rivelano ancillari agli imperativi del profitto e al contempo faticano a nascere e affermarsi movimenti in controtendenza. L’Italia ha imboccato questa strada, ma lo fa in silenzio: il Servizio Sanitario Nazionale è popolare (ancora e nonostante tutto) e sarebbe impopolare esplicitare il suo affossamento. Ma è ora di analizzare lucidamente ciò che è già in atto. Ne parliamo con Gavino Maciocco, docente di Politiche sanitarie presso l’Università di Firenze, direttore del sito web Saluteinternazionale.info e coordinatore dell’Osservatorio sulla Salute Globale.

 

Redazione Diritti Globali: Quest’anno si è conclusa l’esperienza durata quindici anni dell’Osservatorio sulla Salute Globale, di cui lei è stato promotore. Una realtà di ricerca e pensiero critico che ha avuto al centro il diritto alla salute per tutti e tutte. Che bilancio fa di questa lunga esperienza? Ci sono apprendimenti e riflessioni che possono orientarci in questo presente di grandi cambiamenti e nuove sfide?

Gavino Maciocco: Il bilancio di questa esperienza è molto positivo. L’Osservatorio era nato in modo quasi fortuito, nel 2001 a Erice durante un convegno sulle migrazioni e la salute globale. L’appuntamento di Erice mette insieme per alcuni giorni le persone a lavorare e confrontarsi, ci fu un incontro tra persone provenienti da diverse aree del Paese e appartenenti a diverse realtà, università e ONG, tra loro anche Giovanni Berlinguer; tutti noi, alla fine, elaborammo un documento comune, che si chiamò la Dichiarazione di Erice. Questo fu l’inizio, si fondò poi l’Osservatorio sulla Salute Globale, con lo scopo di continuare a essere fonte di documentazione, stimolo e formazione per gli studenti, attraverso due canali: la produzione di rapporti periodici, e la promozione in ambito universitario di corsi sulla salute globale. Quest’ultima ha avuto un seguito significativo, a quei tempi non si tenevano corsi su questo tema, oggi sono circa trenta in tutta Italia, e anche in Italia oggi, come in molti altri Paesi, soprattutto anglosassoni, il tema della salute globale è riconosciuto, dà valore al percorso formativo, è una materia curriculare. In generale, si può dire che quello della salute globale è ormai un tema e un approccio fondamentale, riviste come “The Lancet” hanno una versione a essa dedicata: “The Lancet Global Health”. Noi abbiamo colto questa tendenza, e oggi, finita dopo quindici anni l’esperienza dell’Osservatorio, il lavoro di ricerca e formazione è portato avanti dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), attraverso Saluteinternazionale.info e la Rete italiana per la salute globale, che mette insieme università e associazioni.

 

RDG: Il suo continua a essere un osservatorio privilegiato e critico da cui guardare alla salute globale. In questo momento, a fronte di permanenti e forti disuguaglianze nella salute, tra aree del mondo ma anche dentro ogni Paese, come valuta adeguatezza ed efficacia della governance internazionale delle politiche per la salute? Quale la reale incisività delle grandi agenzie che se ne occupano, come OMS e ONU, ma anche Commissione Europea, per quanto concerne l’Unione?

GM: A mio avviso, l’influenza delle grandi agenzie internazionali sui processi politici globali che riguardano la salute è vicina allo zero, perché non riescono a dare degli indirizzi che siano davvero cogenti e abbiano qualche rilievo sul campo. Anche gli Obiettivi del Millennio sono stati del tutto disattesi proprio nei Paesi più poveri; la valutazione andrebbe fatta Paese per Paese, per capire cosa sta davvero accadendo. La mia impressione è che, ancora una volta, la sanità sia fortemente condizionata dallo sviluppo economico, ben più che dalle linee guida internazionali, solo laddove l’economia tira, ne beneficia (in parte) anche la sanità. Un esempio chiaro è quello della Cina: i cinesi sono ben lontani ancora dal garantire una copertura sanitaria universale, ma negli ultimi anni hanno fatto molti progressi, sul piano per esempio della copertura assicurativa. Ci sono altri Paesi che hanno fatto grandi passi avanti, in Asia, soprattutto, come Thailandia, Malesia o Taiwan, o la Turchia, che sul piano della salute ha molto beneficiato del suo boom economico, e, ancora, il Messico. Pensiamo poi al Brasile, che fino a tre anni fa ha avuto delle performance sanitarie straordinarie, e che ora con la crisi sta invece avendo un ritorno indietro terribile, molte conquiste stanno arretrando proprio a causa della crisi economica. Ciò che è significativo, in questi processi, è che a un certo punto i Paesi si rendono conto che mantenere un sistema sanitario poco equo, da un lato, causa problemi sociali seri, e spesso delle vere e proprie rivolte, di cui noi il più delle volte non abbiamo sentore, ma avvengono e anche in modo radicale (come in Cina, dove sono anche stati uccisi dei medici negli ospedali, che si erano rifiutati di prestare delle cure a chi non vi poteva accedere); e, dall’altro lato, perché si rendono conto che investire in salute vuol dire investire in economia. Detto ciò, questo processo è simile a quello avvenuto in Europa nel secolo scorso? Si tratta di modelli alla Bismark o alla Beveridge, sistemi prevalentemente pubblici? No, oggi sono processi misti, pubblico e privato, e privato soprattutto nella parte dell’offerta. Non sono, insomma, situazioni paragonabili al welfare europeo.

 

RDG: Ecco, ma a proposito del modello europeo di welfare, da decenni appare in declino, e la crisi del 2008, con le conseguenti politiche di austerità, hanno inferto un colpo significativo. Il welfare come costo e non come variabile dello sviluppo di un Paese è diventato quasi un luogo comune. A che punto siamo di questo processo di cambiamento radicale? E cosa sta significando per la sanità e la salute?

GM: Il welfare europeo sta vivendo una regressione terribile, che in parte è legata alla crisi, ma, dall’altra, alla spinta macroeconomica che vede nella sanità un ambito che genera alti profitti, a diversi livelli, assicurativo e farmaceutico. Ciò che sta accadendo per l’epatite C è emblematico di questa tendenza: in Europa non era mai successo, come invece in Africa, che un farmaco salvavita come il Sofosbuvir fosse razionato, e lo fosse nell’indifferenza totale, a parte i pazienti che lo vivono sulla propria pelle; non c’è una forza politica che si assuma una responsabilità verso questa enorme ingiustizia, tutto sta passando come una cosa normale. In Italia sono solo cinquantamila le persone che stanno beneficiando di questo farmaco, su un totale di un milione che ne ha bisogno, è un livello grave di iniquità. E non ce ne possiamo nemmeno fare una ragione, perché il prezzo così elevato del trattamento, e il relativo accesso selezionato, non è imputabile ad alti costi della ricerca, il costo di produzione è infinitamente più basso, il prezzo è così alto semplicemente perché se il prezzo è alto, restano alte anche le azioni, se il prezzo cala, calano anche le azioni. È una questione semplicemente speculativa. Paesi come l’India, abituata a produrre farmaci generici, ha preso subito posizione, dicendo che se i prezzi fossero rimasti così elevati avrebbero prodotto il generico, la casa produttrice Gilead ha ceduto, senza nemmeno il bisogno della procedura di licenza obbligatoria che di solito si deve intraprendere in questi casi. Così, in India il trattamento costa 700 euro, da noi 41mila, 74 mila se si acquista in farmacia.

 

RDG: Qual è la correlazione tra questa vicenda dei farmaci per l’epatite C e quanto sta avvenendo nel sistema di welfare europeo? Insomma, il caso Sofosbuvir è emblematico di una tendenza in atto?

GM: Certo, perché mentre nel modello dell’universalismo si prevedeva che tutti dovessero avere una copertura, o di tipo mutualistico o fornita dal sistema sanitario nazionale, questo oggi non è più considerato un principio fondamentale, ma qualcosa che può variare al variare del contesto: se il contesto non è favorevole, per esempio dal punto di vista delle assicurazioni e del mercato, l’accesso alle cure non è più considerato una variabile indipendente. In Inghilterra è esplicito: la salute va sul mercato e tutto va privatizzato, in Italia nessuno ha il coraggio di fare questo discorso così chiaramente, perché è ancora molto impopolare, ma le cose stanno cambiando. Pensiamo al sindacato, la stessa CGIL non difende più questo principio, e qualcuno lo dice chiaramente.

 

RDG: Siamo allora di fronte a un processo ormai inarrestabile di privatizzazione, anche in Italia?

GM: Se guardiamo proprio alla cordata Unipol- Coop, cui credo che anche il sindacato si sia opposto troppo debolmente, si va a parare proprio lì. Nelle Coop di Firenze, come in Emilia-Romagna, ormai ci sono all’interno ambulatori medici a pagamento, le persone consumano lì prestazioni sanitarie come lì consumano la Coca Cola o qualsiasi altra merce si trovi in un supermercato. Se tutti premono verso questa direzione, se tutti premono verso le assicurazioni integrative – perché anche quelle aziendali negoziate in alcuni casi anche dalla CGIL portano nella stessa direzione – noi avremo un sistema pubblico che si impoverisce progressivamente, e un sistema assicurativo – per ora apparentemente integrativo – che in realtà diventa sostitutivo, e farà si che la gente via via si rivolga più a quest’ultimo, per avere prestazioni adeguate. E il sistema pubblico si impoverirà ulteriormente, fino ad avere una qualità sempre più bassa. Non ci vuole tanto: già in campo diagnostico siamo a questo livello, i tempi di attesa lunghi già portano molti, se devono farsi una ecografia o una risonanza magnetica, a rivolgersi al privato, ed è evidente che riducendosi la domanda verso il pubblico si riduce anche l’offerta, è un meccanismo a catena, si riducono i medici radiologi del settore pubblico, le ASL non assumono, non c’è turn over, restano i più vecchi… Succederà, succede così. Le disuguaglianze nell’accesso alle cure si vedono già ora, ma non è nulla rispetto a quello che vedremo tra qualche anno, stante questo trend. Sono processi, questi, che minano alla radice il sistema sanitario, perché è un sistema fatto innanzitutto di risorse umane, non di pasticche, e se si disincentivano gli operatori pubblici, non si gratificano, non si consente il turn over, il sistema via via si indebolisce: per formare un bravo radiologo non ci vogliono due settimane, ci vogliono dieci anni…

 

RDG: Il processo che sta descrivendo è quello ormai consolidato e giunto alle sue estreme conseguenze in altri Paesi, per esempio nel Regno Unito, dove si stanno verificando le ricadute in termini di disuguaglianze nell’accesso alle cure ma anche, stando ai dati, di conseguenze negative dal punto di vista dei costi e della sostenibilità. Insomma, non sembra che privato significhi più convenienza sotto il profilo economico. Ci sono lezioni da apprendere per la politica italiana?

GM: In Gran Bretagna hanno addirittura costituito un partito per la difesa del servizio sanitario nazionale, purtroppo senza troppa fortuna. Va detto che l’attenzione della politica a questi processi è davvero scarsa, da noi anche a causa della crisi della sinistra, perché è la sinistra che dovrebbe farsene carico. David Cameron stesso ha dovuto ammettere che i processi di privatizzazione avevano provocato dei disastri, promettendo di riparare, ma una volta vinte le elezioni le promesse non sono state rispettate. Sta accadendo anche in Italia la stessa cosa, pensiamo a tutta la questione del project financing, in cui l’ospedale in parte viene costruito con i soldi dei privati in cambio della gestione per vent’anni dei servizi accessori, dalla pulizia alla mensa ai parcheggi, ma non è solo questo il guadagno, alla fine dei vent’anni i privati ricevono dalla ASL il rimborso totale degli investimenti effettuati. In Gran Bretagna hanno smesso di farlo perché si sono accorti che questo portava a dei costi eccessivi; loro se ne sono accorti dopo vent’anni, noi stiamo cominciando ora: l’ospedale di Mestre, per esempio, ha avuto costi enormi, e nonostante tutto si continua a pensare che il project financing sia la scelta giusta, anche in Regioni come la Toscana e l’Emilia-Romagna.

 

RDG: A proposito di accesso alle cure, l’OMS ha lanciato le sue raccomandazioni per una “copertura” universale, l’accesso per tutti, proprio partendo dal fatto che avere cure di qualità, accessibili e tempestive sia un determinante fondamentale per la salute. Lei ha notato però che l’OMS parla di “copertura” e non di diritto alla salute….

GM: L’OMS non ha usato Health for all, la salute per tutti, ma coverage, copertura, che può voler dire molte cose, come in Cina dove l’assicurazione pubblica copre solo parte delle prestazioni ospedaliere e non ha risolto il problema della spesa eccessiva a carico delle famiglie. O come in Italia, dove dovrebbe essere per tutti, salvo poi scoprire che sono ormai diversi milioni gli italiani che rinunciano a curarsi. Formalmente la copertura c’è, perché oltretutto tutti paghiamo per avere una copertura sanitaria, poi però scopriamo che in pochissimi possono curarsi per l’epatite. È una cosa molto grave, e non solo per i singoli: se si assume il farmaco quando si è cronici ma non ancora in cirrosi, si guarisce e alla cirrosi non ci si arriva. Si rinuncia a curare persone che guarirebbero e non avrebbero bisogno di altre cure, a loro volta costose, tra farmaci e ricoveri. Curare significa non solo evitare dolore e sofferenze, ma anche produrre un risparmio importante.

 

RDG: TIIP e TISA, le negoziazioni per i grandi accordi commerciali globali vanno avanti, e includeranno anche i servizi. Alcuni governi rassicurano, e anche la Commissione Europea spiega che nessuno Stato sarà obbligato a privatizzare la sanità. Tuttavia i processi di commercializzazione agiscono e agiranno su diversi livelli, come su farmaceutica o regolazione del lavoro degli operatori del settore. Qual è la sua valutazione sulla fase che stiamo attraversando?

GM: Sembra che il processo dei trattati internazionali per il commercio abbia rallentato, per ora, ma non c’è dubbio che la sanità sia uno dei primi campi in cui gli americani vogliono sbarcare in Europa, perché le loro assicurazioni, dopo aver invaso l’America Latina, hanno bisogno di espandersi e l’Europa è un ottimo mercato. In Inghilterra, in Francia e in Germania c’è stata una forte opposizione di movimento a questa prospettiva, qui in Italia c’è molto silenzio. Troppo.

 

RDG: In Italia, la ricerca e la riflessione sulle disuguaglianze nella salute sta facendo passi avanti. Il recente secondo Libro bianco curato dall’ESS ha non solo fotografato la situazione, con luci e ombre, ma anche chiaramente indicato una strada, perché per ogni determinante di salute è possibile individuare una strategia per guadagnare in equità. Le sembra che vi sia un progresso, in questo senso?

GM: Il lavoro di Giuseppe Costa e del gruppo ESS è importante. Temo però che a oggi le ricadute concrete siano uguali a zero, ministero della Salute e governo non dimostrano il minimo interesse su questi aspetti. Lavorare sui determinanti sociali implicherebbe cambiamenti decisi: pensiamo alla lotta povertà, che sarebbe fattore cruciale, vediamo forse un qualche serio impegno politico in questa direzione? E l’aumento della povertà ha evidenti ricadute sulle disuguaglianze e sulla salute dei più deboli. E non si fanno nemmeno cose apparentemente più semplici, come una seria campagna per ridurre il consumo di tabacco tra i più giovani. Se il presidente del Consiglio ha i tra i suoi principali finanziatori la Philips Morris, si capisce come campagne contro il fumo non se ne facciano… Il principale sostenitore della Fondazione Open, che a Matteo Renzi fa riferimento, è British American Tabacco, ovvero Philips Morris! Oppure, lo zucchero: l’OMS ha emesso una raccomandazione per ridurre del 50% la percentuale di zucchero nella dieta, il solo Paese che si è opposto è l’Italia, il ministro Beatrice Lorenzin – perché nessuno scienziato che si rispetti avrebbe mai detto una cosa simile – dice che non vi sono evidenze scientifiche che dimostrino la correttezza di questa indicazione. Insomma, dobbiamo difendere gli interessi dei nostri dolciari, Nutella e gli altri. Non credo che ci sia davvero l’intenzione di fare prevenzione e una seria lotta alle disuguaglianze.

 

RDG: Possiamo, in chiusura, trovare in questo scenario fortemente critico qualche elemento di ottimismo, almeno della volontà?

GM: Il fatto è che nel nostro Paese si stanno progressivamente riducendo gli spazi per la critica e il diritto all’opposizione, ed è sempre più difficile trovare luoghi e modi per battersi per il diritto alla salute. Sono davvero preoccupato da questo punto di vista. Vivere in Toscana, regione da sempre molto attenta ai temi della salute, e vedere oggi sbiadire i principi fondamentali del diritto alla salute senza che nemmeno ce ne si renda conto, fa davvero piangere il cuore, e fatico a trovare appigli per essere ottimista. Con il DEF dell’anno scorso il governo ha sancito che fino al 2018 continuerà la riduzione del Fondo sanitario nazionale, che vuol dire riduzione del personale e riduzione anche della qualità delle cure. Non tutto è fermo, però: sui farmaci per l’epatite C – questione davvero emblematica, come dicevamo – si sta creando un movimento, e non solo tra i pazienti ma anche con l’adesione di molti medici.

 

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Gavino Maciocco: è docente di Politiche sanitarie presso l’Università di Firenze e dirige il Centro di documentazione e sito web Saluteinternazionale.info. Dal 2001 al 2016 ha promosso e coordinato L’Osservatorio sulla Salute Globale.

Tra le sue ultime pubblicazioni: Le case della salute. Innovazione e buone pratiche (con Antonio Brambilla, Carocci editore, 2016); La salute globale. Determinanti sociali e disuguaglianze (con Francesca Santomauro, Carocci editore, 2014); Igiene e sanità pubblica. Manuale per le professioni sanitarie (con Nicola Comodo, Carocci editore, 2011); Le sfide della sanità americana. La riforma di Obama. Le innovazioni di Kaiser Permanente (con Piero Salvadori e Paolo Tedeschi, Il Pensiero Scientifico editore, 2010); Politica, salute e sistemi sanitari. Le riforme dei sistemi sanitari nell’era della globalizzazione (Il Pensiero Scientifico editore, 2009).

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