Giuseppe Costa: Italia in marcia verso l’equità. Si può fare!

Giuseppe Costa: Italia in marcia verso l’equità. Si può fare!

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Intervista a Giuseppe Costa, a cura di Susanna Ronconi, dal 14° Rapporto sui diritti globali

 

Le disuguaglianze nella salute sono un problema, in Italia, e l’obiettivo di una maggiore equità fa fatica a farsi strada nell’agenda della politica, sia perché manca un movimento che a livello sociale forzi in questa direzione, aprendo il contenzioso, sia perché contiene in sé la sfida di una complessità – quella per intenderci della “salute in tutte le politiche” – cui l’attuale discorso pubblico sembra non essere in grado di voler e poter rispondere. Di contro, la capacità di leggere, analizzare e valutare le disuguaglianze e i loro determinanti sociali ha fatto veloci passi avanti, e la politica si trova oggi ad avere solide basi di evidenza su cui impostare scelte di equità. Di questo processo e dei suoi possibili esiti parliamo con Giuseppe Costa, curatore del recente L’equità nella salute in Italia. Secondo rapporto sulle diseguaglianze sociali in sanità e coordinatore del gruppo ESS-Equità nella salute e nella sanità, istituito presso la Conferenza delle Regioni.

 

Redazione Diritti Globali: Il Rapporto sulle disuguaglianze mette in scena una Italia che sta bene, nel suo complesso, ma anche una mappa di disuguaglianze significative tra gruppi e ceti sociali. È giustificato un allarme in questo senso?

Giuseppe Costa: Tutti gli indicatori di posizione sociale dimostrano disuguaglianze nella salute: sono le disuguaglianze educative, quelle per classe sociale, per la posizione occupazionale, e avere o non avere lavoro; quello che pare stia succedendo in Italia è che mortalità e morbosità stanno migliorando soprattutto in termini assoluti. Se invece si considerano dal punto di vista relativo, se cioè si osservano le disuguaglianze del povero rispetto al ricco, la situazione appare in peggioramento. Va detto che mentre in molti Paesi europei sta peggiorando anche il dato assoluto, cioè peggiora la salute, in Italia questo andamento in valori assoluti invece è positivo. E va detto, anche perché a dire che non c’è niente che va meglio si rischia di lavorare per il peggio… cioè, è come dire che è un processo contro cui nulla può essere fatto. E invece bisogna dirlo, che ci sono anche trend positivi, proprio per responsabilizzare le politiche; non si tratta certo di truccare o addolcire i dati o dire che le cose vanno bene quando non è vero, ma è importante leggere correttamente le tendenze in atto.

 

RDG: Cosa ha giocato positivamente a livello italiano laddove la salute è migliorata?

GC: Innanzitutto il credito educativo, non c’è dubbio, che funziona in due modi, sia come variabile indicativa della posizione sociale, sia come competenze e capacità della persona di governare la propria vita e gestire i propri problemi. Anche se la mobilità sociale che si crea in questo modo, quando si raggiunga un miglior livello di istruzione rispetto alla famiglia di origine, può far abbassare la qualità della salute del gruppo cui si appartiene: cioè ci si porta dietro, nella nuova e migliore posizione, lo svantaggio di salute del gruppo sociale di provenienza, quando questo era più debole. È uno dei complessi paradossi che rende difficile interpretare i dati, tu migliori la tua salute grazie ai tuoi progressi ma puoi far peggiorare quella del gruppo che hai raggiunto. Questo per dire dei trucchi e delle difficoltà nella lettura dei dati. In questo quadro, comunque, non c’è più nessun dubbio: i miglioramenti nelle competenze educative sono essenziali nel migliorare la salute. Ma l’elemento cruciale e che fa la differenza è l’acquisizione di competenze cognitive ed emotive nel periodo dell’infanzia, e su questo va detto che le politiche non stanno facendo niente. Tutto è puntato sull’universalismo dell’offerta scolastica, che va benissimo, ma a quel punto si è già consumato metà del destino di salute. Con quel capitale di competenze con cui arrivi alla scuola, tu avrai successo nel percorso scolastico stesso, ma anche in quello lavorativo, relazionale, famigliare, e nello stesso capitale personale da spendere per la tua salute. Quello che succede nei primi anni di vita è fondamentale sia dal punto di vista della crescita delle relazioni sia da quello psicosociale.

 

RDG: Quanto incide in questi processi il reddito? Probabilmente non lo si considera a sé ma intrecciato con altre variabili, è così?

GC: Se si dovesse stilare una graduatoria dei fattori più significativi nelle disuguaglianze di salute degli adulti, le due variabili che in realtà hanno maggior peso sono il livello di istruzione e la posizione occupazionale, la classica posizione sociale rispetto al lavoro, insomma la posizione di classe. Una volta aggiustato su queste due variabili, cioè a parità di livello di istruzione e di posizione occupazionale, allora il reddito può fare la differenza, una differenza supplementare, diciamo. Questo è ragionevole, perché rispetto alla salute una volta che hai il reddito sufficiente a garantirti le condizioni minime di vita non c’è alcuna ragione per cui aggiungere un 10% di reddito possa fare la differenza; quello che può accadere è che, combinato con le altre variabili, il reddito possa concorrere a darti la percezione di una maggior capacità di governo della tua vita, è insomma l’effetto psicosociale che produce questo miglioramento.

 

RDG: Come giudica allora l’allarme ricorrente sul numero crescente di persone che non possono pagarsi le cure proprio per ragioni di reddito? C’è un eccesso di enfasi?

GC: Diciamo che in parte è retorica, e potremmo dire una retorica anche utile, dato che serve a tenere allarmati sull’importanza dell’universalismo dell’offerta sanitaria. Ma rimane comunque retorica, dato che si tratta di un fenomeno almeno in parte legato alle caratteristiche della survey: gli strumenti che si usano per monitorare la frequenza della rinuncia alle cure sono difficili da usare, sono ricerche campionarie, dove si chiede se è capitato di dover rinunciare a qualche prestazione e se sì, se la causa è stata economica; si producono delle frequenze che ci dicono quanti, in quel campione, hanno rinunciato. Il problema però è che queste indagini riguardano spesso persone che hanno problemi di salute, che sono poi le persone che ricevono tante prestazioni sanitarie, e allora emerge che su dieci esami che devono fare rinunciano a uno, e ne effettuano nove. Quello che esce dal Censis, per esempio, è che ci sono nove milioni di italiani che rinunciano alle cure, ma non è così. Che con la crisi sia aumentato il numero di chi afferma che per ragioni economiche non fa una visita specialistica o un esame è vero, se diminuisce il reddito, tu rinunci; ma non c’è alcuna evidenza che questo voglia dire avere delle conseguenze di salute. Nel complesso, i sistemi di esenzione hanno protetto le fasce più deboli, anche il super ticket introdotto nel 2011 ha toccato molti ma ha lasciato fuori quelli che erano esenti, almeno per quelle che sono le prestazioni appropriate. Non c’è uno studio sulle ricadute dell’introduzione del super ticket, ma il monitoraggio su alcune prestazioni, come per esempio gli esami necessari ai diabetici, ci dicono che non c’è stato alcun peggioramento. L’unico allarme vero è quello per la salute orale, che è fuori dai LEA, i livelli essenziali, e per le cui spese non si riceve alcun rimborso. ed è chiaro che se andavi dall’igienista per la pulizia dei denti due volte all’anno, ora ci vai una volta. Questo preoccupa, ma è una questione politica, l’inclusione delle cure dentali nei LEA: quello che si sa è che dopo trent’anni in cui le carie nei bambini decrescevano, ora stanno di nuovo aumentando. Nell’aumento delle rinunce insomma c’è di tutto, dall’acquisto di farmaci omeopatici in poi, ma per quanto concerne le prestazioni incluse nei LEA credo che non sia cambiato molto. Credo che ci sia, semmai, una fascia più esposta agli effetti della crisi che è quella border line, grigia, di chi non è abbastanza povero da avere l’esenzione ma è in condizioni economiche precarie. Questo solleva un problema di revisione del sistema di esenzioni, magari con l’introduzione di un sistema a franchigia per cui al contrario io che sono iperteso ma guadagno cinque mila euro al mese non sia esente…  Va stabilito un tetto di reddito al di sopra del quale si può far pagare il ticket anche se si è malati cronici, sono scelte di buon senso che potrebbero essere alla portata di una decisione politica non così difficile. Quello che possiamo vedere oggi è a livello di aneddotica, per esempio se si leggono le osservazioni che vengono dalla Caritas, dove approdano persone in difficoltà anche sul piano della salute, situazioni effettivamente difficili, che però non rivelano un trend, sono situazioni per ora ancora marginali.

 

RDG: Possiamo insomma dire che la salute degli italiani è sì disuguale, e lo è a causa soprattutto di alcuni tra i determinanti sociali di salute, ma è anche nel complesso migliorata?

GC: Sì, gli indicatori di salute, parlo della salute fisica, hanno trend positivi, sia prima che dopo la crisi, e questo è dovuto al fatto che stanno invecchiando generazioni che hanno avuto una miglior qualità di vita: i baby boomer degli anni Sessanta hanno adesso 60 anni, e portano con sé dei vantaggi che le generazioni precedenti non avevano avuto.

 

RDG: Però leggendo i dati sulla qualità della vita degli over65 si vede che c’è stato un peggioramento negli ultimi anni, cioè si invecchia peggio, con più disabilità funzionale, per esempio…

GC: Qui ci sono da chiarire alcuni trucchi nella lettura dei dati. L’OCSE, che elabora queste rilevazioni, usa l’indicatore della speranza di vita libera da disabilità che mette insieme la speranza di vita – che proviene dall’andamento dei dati sulla mortalità – con la prevalenza di condizioni caratterizzate di limiti funzionali (secondo una batteria di domande formalizzate a livello europeo) riferiti dagli intervistati; in Italia, il modo con cui questo elenco di domande è stato tradotto e formulato orienta a risposte decisamente peggiorative rispetto a quanto avviene negli altri Paesi. Questo soprattutto ha fatto sì che l’Italia scendesse in graduatoria. Se si adottano indicatori come quelli della disabilità funzionale secondo le scale che adottiamo tradizionalmente in Italia, che sono molto più sofisticate e anche più obiettive, i risultati cambiamo e migliorano. Sono però scale più complesse, che vengono utilizzate più raramente, una volta ogni dieci anni, mentre le rilevazioni come quella dell’OCSE si fanno annualmente. Bene: la scala più sofisticata e obiettiva mette l’Italia in testa alla classifica della speranza di vita senza limitazioni funzionali essenziali per la vita quotidiana. Anche sulle disuguaglianze sociali nella speranza di vita libera da disabilità, va detto che l’Italia è migliore di altri Paesi: per esempio, comparandoci con la Finlandia, prendendo le fasce di popolazione in posizione sociale più alta e più bassa, da noi la differenza nell’aspettativa di vita senza disabilità tra i due gruppi è di due anni e mezzo, in Finlandia di dieci. C’è un’altra trappola nella lettura di questo dato: le rilevazioni si basano sulle famiglie ed escludono le persone istituzionalizzate, che nel Nord Europa sono di più, circa il 10%, mentre da noi meno del 2%, per lo più restano in famiglia. Ecco che aumenta il numero di chi ha una disabilità e viene rilevato dall’indagine.

 

RDG: Torniamo allora alla retorica sulla crisi e sulle disuguaglianze. C’è un eccesso di enfasi pessimistica sulla salute degli italiani?

GC: Non voglio certo buttarla tutta in tecnica e dire che tutto è positivo per smentire la politica e la retorica, ma l’invito è a essere coerenti con quello che si osserva. Anche per essere più forti nella negoziazione: se c’è solo una lettura pessimistica non riusciamo poi ad avere un approccio concreto, a indicare alla politica quali passi invece si possono efficacemente fare.

 

RDG: Ecco, la politica. Qual è oggi la situazione in Italia del discorso politico sulle disuguaglianze? Sia dal punto di vista della ricerca che da quello della policy, è vero che siamo in ritardo rispetto alla media dei Paesi Europei?

GC: Nel 1994 abbiamo scritto il primo Rapporto sulle disuguaglianze, eravamo pieni di entusiasmo per le scoperte che stavamo facendo su questo tema, ma era una cosa tra accademici che studiavano e facevano il punto della situazione. Nel 2014, a distanza di vent’anni, esce il nuovo Rapporto come prodotto di una Commissione della Conferenza delle Regioni, c’è un passaggio istituzionale importante. Certo, c’è stato un lungo lavoro diciamo “dal basso”. In Gran Bretagna, il Rapporto Black sulle disuguaglianze è del 1980, il Piano Blair sulla salute è del 1998, dunque ci hanno messo più di vent’anni, anche perché subito dopo l’uscita del Rapporto è andata al governo Margaret Thatcher, e le cose sono cambiate… Il fatto che noi ci abbiamo messo vent’anni a passare dall’accademia alla politica sta nella media dei tempi in cui il tema delle disuguaglianze entra nell’agenda politica di un Paese. Un problema è anche che si tratta di una anti-notizia: come fai a dire che i poveri stanno peggio e pensare di avere attenzione? Un altro problema è che è un tema che non ha più un avvocato, non è come la parità di genere che ha dietro di sé un movimento, quello delle disuguaglianze in salute è un tema tipicamente trasversale che potrebbe interessare tutte le politiche, e che invece non ha un buon difensore da nessuna parte.

 

RDG: Quali sono oggi i passaggi che si profilano come necessari e praticabili per promuovere la questione dell’equità nella salute nell’agenda politica nazionale? E soprattutto nella prospettiva della “salute in tutte le politiche”?

GC: Innanzitutto, bisogna dare una risposta a quella sfida che è stata definita come “no data no problem”, cioè se non c’è conoscenza del fenomeno non ci sarà nemmeno un problema da mettere in agenda. Noi su questo abbiamo fatto passi da gigante, ci sono ormai studi longitudinali e meccanismi di integrazione dei dati del sistema sanitario con delle covariate sociali che permetteranno di far capire con chiarezza cosa è equo e cosa no rispetto alle prestazioni sanitarie, permetteranno di accendere lampadine di allarme su cosa sta succedendo. Ma la stessa cosa succederà ad agenzie come l’ISFOL, per esempio, per quanto riguarda le politiche attive del lavoro. In qualche modo il nostro lavoro sta entrando anche nella riforma delle pensioni e nel prossimo DEF, perché è chiaro che il sistema pensionistico ha sulla salute molte e diverse ricadute. Nel giro di pochi anni stiamo facendo molto: stiamo implementando su scala nazionale sistemi di rilevazione insieme all’Istituto nazionale immigrazione povertà e salute, su mandato del Ministro della Salute, dunque con un pieno coinvolgimento istituzionale. Lo stesso Ministero, poi, ha disseminato a molti enti e Ministeri il nostro Rapporto, chiedendo a noi di presentarlo, in una sorta di consultazione mirata, producendo “pacchetti personalizzati” di lettura dei risultati per i diversi Ministeri, Regioni, enti, e in diversi incontri proponiamo le evidenze e i risultati che più riguardano ogni singolo attore istituzionale, chiedendo un riscontro. Che può essere un “grazie” e finisce lì, oppure l’apertura di un confronto. È una strategia bottom up, dal basso, ma è quello che riusciamo a fare e comunque può dare risultati: alla fine di questo percorso scriveremo quali possono essere i passi più efficaci e praticabili, e questo potrebbe configurare una strategia nazionale. Dal punto di vista della politica, comunque, un passo è già stato fatto con il recente decreto sui LEA, in cui sono stati introdotti criteri per l’equità, e non è poco se si pensa che il completo finanziamento alle Regioni prevede il rispetto dei LEA, per cui questo passaggio sull’equità è un chiaro incentivo a occuparsene.

 

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Giuseppe Costa: è professore di Igiene all’Università di Torino e dirige l’Osservatorio Epidemiologico del Piemonte. È stato membro di commissioni consultive della Regione Piemonte, del Ministero della Sanità e dell’Istat e di azioni concertate della UE nei principali campi di ricerca scientifica di suo interesse: l’epidemiologia delle diseguaglianze nella salute e nell’assistenza sanitaria, le politiche di contrasto alle disuguaglianze, l’epidemiologia occupazionale e ambientale, la programmazione sanitaria e i sistemi informativi. Autore di numerose pubblicazioni scientifiche è stato membro dell’Editorial Board di riviste di epidemiologia e sanità pubblica (“Epidemiologia e Prevenzione”, “Journal of Epidemiology and Community Health”, “Italian Journal of Public Health”, “European Journal of Public Health”). È il curatore e coautore (con Maurizio Bassi, Gian Franco Gensini, Michele Marra, Anna Lisa Nicelli, Nicolas Zengarini) di L’equità nella salute in Italia. Secondo rapporto sulle diseguaglianze sociali in sanità (Franco Angeli editore, 2015).

 



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