Stragi. Ma Gerusalemme non è Nizza né Berlino
Un camion guidato da un palestinese diventa strumento di morte e uccide quattro giovani reclute che partecipavano a un corso di formazione militare a Gerusalemme, in un luogo particolarmente bello della città, non lontano da Zur Baher: villaggio palestinese diventato, a partire dal 1967, sobborgo in una città teoricamente unificata ma in realtà profondamente divisa.
Fadi al-Kanbar, palestinese di 28 anni, padre di quattro figli, era camionista; i vicini dicono che non svolgeva attività politica; in serata il Fronte popolare l’ha indicato come uno dei suoi membri, ma la famiglia ha smentito: secondo la sorella, ha deciso di sacrificarsi perché «così aveva deciso dio, e a dio va resa grazia».
Nizza. Berlino. I camion. Anche qui un camion. In Europa è stato Daesh, il sedicente Stato islamico. Il suo nuovo sistema? Dimentichiamo che qui lo hanno inventato prima e che già in vari casi, proprio negli ultimi anni, automobili, trattori e altri veicoli sono diventati un’arma mortale. Ma l’associazione mentale con l’Europa è quasi immediata; perché allora ricordare che il sistema è piuttosto diffuso, qui?
Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, in generale evita di recarsi sui luoghi che hanno registrato attentati. Siccome ha promesso sicurezza e lo sradicamento del terrorismo, in genere è meglio per lui evitare…ma stavolta è andato. Guardacaso, proprio mentre era di certo preoccupato per le accuse e le indagini che lo riguardano direttamente. Diversi e problematici casi di corruzione erano infatti la notizia centrale e più piccante nel paese, finché appunto non è avvenuto l’attacco.
Per ore e ore, tutte le versioni dei diversi organi di sicurezza hanno ripetuto che non si sapeva niente dei motivi né dell’identità politica dell’attentatore. Ma già pochi minuti dopo l’arrivo di Netanyahu, ecco che viene diffusa una versione davvero di peso: l’omicida ha usato un sistema tipico di Daesh e quindi di certo era un attivista o simpatizzante di quest’organizzazione.
Netanyahu è un grande maestro nell’arte della propaganda. L’attacco è stato ispirato da Daesh, forse ordinato da Daesh, eseguito apparentemente da un militante o simpatizzante del califfato: si spera che il mondo reagisca come è suo dovere! Nella notte, il Consiglio di sicurezza Onu ha condannato con forza l’assassinio dei soldati. Il messaggio è chiarissimo: è Daesh, islam, terrorismo. Non sono le cose di cui tratta il Consiglio di sicurezza Onu quando discute degli insediamenti. Quelli non sono il problema. Il problema è il terrore.
Il messaggio, per gli israeliani e la comunità internazionale, è chiaro. Gli israeliani devono smettere di discutere di stupidaggini, come le presunte faccende di corruzione. Il sentimento di paura deve aumentare. Più paura significa più destra, più terrore di Stato da parte di Israele. Terrore «giustificato»: distruggeremo la casa dei suoi familiari, li priveremo dei diritti che avevano come abitanti di Gerusalemme, puniremo la popolazione di Zur Baher perché capisca qual è il prezzo che si paga per il terrore.
La comunità internazionale riceve un messaggio analogo, che cade sul terreno fertile dell’odio antislamico alimentato dalle destre in Germania, Francia, Italia, Ungheria, alla fine in tutta Europa. L’islamofobia è all’ordine del giorno anche negli Stati uniti. Per tutti questi, va bene il messaggio di Netanyahu il quale, in sintesi, dice che siamo tutti sullo stesso fronte: mondo civile contro islam criminale.
Così, la questione palestinese non si pone se non in manifestazioni marginali. Tutti – «tutti» vuol dire gli europei e gli israeliani – debbono capire che il terrorismo è la questione essenziale a livello mondiale e che un fronte unito deve essere il miglior rimedio per combattere l’islam. Grazie all’islam e al terrore è possibile far dimenticare che la questione centrale è un’altra.
È possibile che Fadi al-Kanbar fosse un fanatico islamico, magari impressionato dall’efficacia criminale dei camion a Nizza e Berlino. Ma a Gerusalemme, l’unificata, la divisa, l’odio rende l’aria irrespirabile, perché il conflitto israelo-palestinese continua ad aggravarsi. La repressione cresce giorno per giorno ed è sempre più forte la sensazione che manchi un orizzonte di miglioramento. Disperazione, paura e odio producono i loro effetti.
Milioni di palestinesi sprovvisti di diritti umani e politici, privati della nazionalità, perdono ogni speranza di un futuro migliore, in una situazione che peggiora a vista d’occhio. Il risultato è molto semplice e tragico e continuerà a far pagare un prezzo che potrebbe crescere, in termini di sangue, mentre al tempo stesso la società perde gli ultimi freni democratici e precipita in una realtà di repressione crescente.
Questa è l’essenza del problema, ed è auspicabile che le forze liberali e favorevoli alla pace si dissocino con forza da un nuovo tentativo di alimentare l’islamofobia dimenticando la necessità di trovare formule che portino alla pace e permettano l’attuazione concreta di diritti umani e politici. Anche per il popolo palestinese.
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