Meta terrorismo. Stato Islamico, Turchia e lo specchio del terrore
Per quanto ne sappiamo il massacro di Istanbul segue le linee di evoluzione degli attacchi jihadisti degli ultimi mesi: un attentatore solitario che sceglie come obiettivo la folla inerme e indistinta, muovendosi sullo sfondo di forti richiami simbolici e identitari (l’alcol, la festa «politeista»). Che siano uno o più d’uno, ad agire è una mano militarmente addestrata, che si divincola nei meandri di una città presidiata da migliaia forze di sicurezza in un paese dove vige lo stato d’emergenza, e si muove come un inghimasi, pronta a sparare fino all’ultima cartuccia.
Non si tratta né di kamikaze imbottito di esplosivo, né un improvvisato camionista, ma di una scelta tattica che va interpretata alla luce dell’intima e contraddittoria frequentazione dei fronti di guerra siriani da parte della Turchia. Milioni di europei e americani hanno festeggiato in pubblico il nuovo anno: gli attacchi volti a disarticolare la sezione operazioni internazionali di Isis hanno reso più difficile, per un’entità terrorista e territoriale militarmente incalzata su più fronti, ordire azioni su ampia scala in paesi ostili, sull’impronta di quanto la rete di Abdelhamid Abaaud mise a segno con la carneficina parigina del novembre 2015.
La mobilità dei foreign fighters è parzialmente inibita: non a caso per buona parte degli attentati recenti più che addestramento militare nei campi siriani si rilevano tracce digitali, nell’uso ormai disinvolto delle piattaforme social fino all’imminenza dell’attacco, sulla scena del crimine, o durante la fuga. Il terrorismo è comunicazione: nel mondo della comunicazione succedono cose nuove e il caos regna sovrano. Abbiamo visto «soldati dello Stato Islamico» filmare e caricare su rete lo spettacolo orrendo della loro macelleria (Parigi, giugno); dall’altra parte, abbiamo visto i media italiani ricadere compulsivamente nella diffusione di immagini del terrore, con la pubblicazione a tutta pagina e tutto volto dei soldati turchi catturati dall’Isis in Siria mentre le fiamme stanno per arderli vivi. Oggi a Istanbul le autorità turche impongono la solita censura mediatica, ma lasciano filtrare le immagini di un’esecuzione sulla porta della discoteca Reina, e poi quelle di un primo presunto sospetto kazako (sospetto poi rivelatosi infondato); infine vediamo un nuovo presunto attentatore ritrarsi mentre passeggia con aria di sfida per piazza Taksim.
Il sospetto viene identificato, ma rientrato a casa nella regione di Osh, in Kirgizstan, l’interessato nega ogni addebito. Da dove arrivano queste immagini? Di quale nazionalità e di quali cittadinanze si sta parlando, mentre Erdogan promette un futuro luminoso una volta che la ferma del sultano mano guiderà attraverso il bagno di sangue e le convulsioni dei tempi bui? Già spiazzati dal trovarsi a prestare attenzione a un attentato in cui molte vittime si rivelano non occidentali, i media nostrani si affannano nel tentativo di decifrare frettolosamente le piste investigative, inseguendo con l’aiuto di Wikipedia le fibrillazioni dell’arco turcofono che dal Caucaso arriva all’Asia Centrale, e dalla Cecenia porta fino alla questione uigura in Cina.
Mentre questo avviene, con le consuete grossolane distorsioni e vergognose forzature, appaiono titoli sull’imminenza di un attacco biologico che l’Isis prepara nel Regno unito. Evidentemente siamo entrati in una nuova fase della rappresentazione della violenza, con ulteriori passi in avanti nello sviluppo del genere «meta-terrorismo» (di cui il manifesto ha parlato già il 17 gennaio 2016). Se il terrorismo è comunicazione, le ondivaghe modalità della comunicazione del terrore meritano esse stesse riflessione: pochi giorni fa abbiamo visto le immagini iper-reali dell’ambasciatore russo, il corpo a terra braccia a croce, mentre in sala rimbombano le parole dell’assassino, che grida vendetta per il tradimento di Aleppo da parte di Ankara. Come e quali immagini circolano, in un paese che blocca i media davanti a eventi di terrore, arresta in massa i giornalisti «complici dei terroristi», e censura i fotogrammi della guerra in Kurdistan?
I fatti di Istanbul lasciano sul terreno una seconda scomoda verità: la difficoltà a leggere il contesto internazionale. L’Europa ha vissuto tre fasi di terrorismo jihadista: la prima risale alla metà degli anni ’90, quando i terroristi del Gruppo Islamico Armato spinsero le proprie autobombe fin nel cuore di Parigi per fermare l’aiuto della Francia al regime militare algerino contro gli islamisti. Il secondo picco si è registrato intorno agli scenari post-invasione dell’Iraq, e ha visto al-Qaeda e affiliati organizzare attentati come forma di deterrenza rispetto al proprio contributo militare all’occupazione statunitense in Iraq. La terza campagna terrorista è in pieno corso, e ha a che fare con l’ascesa e declino dello Stato Islamico e le guerre siriane: lo scopo è evidentemente fiaccare la volontà di contribuire alle operazioni anti-Isis nel teatro mediorientale. Parte di questo disegno è isolare la comunità musulmana europea, attizzare l’islamofobia, alimentare il consenso dei partiti nazional-populisti e anti-europeisti, polarizzare e passare all’incasso con nuove reclute.
Se questo discorso vale per l’Ue, vale a maggior ragione per la Turchia, ben più esposta da scelte dissennate condotte sull’orizzonte domestico e in quello della politica estera. L’accusa di cospirazione gulenista e alto tradimento ha rimosso la gran parte degli ufficiali turchi che si erano occupati del fronte siriano fino al tentativo di golpe della scorsa estate, a seguito del quale Erdogan sterza bruscamente verso Mosca, riprendendo buone relazioni con l’Iran. Sostenute dall’aviazione turca, formazioni filo-turche, esfiltrate sguarnendo Aleppo e subito reimmesse nei ranghi dell’operazione «Scudo dell’Eufrate», stanno oggi radendo al suolo la città siriana di al-Bab, baluardo territoriale che separa la «fascia di sicurezza» costruita con l’invasione turca dalla più ampia porzione di territorio controllato dalle forze che Mosca definisce l’«opposizione armata» ad Assad (in gran parte islamisti) e i qaedisti ex-Nusra che amministrano la shari’a nell’ «emirato di Idlib».
Al-Bab è una roccaforte dell’Isis: è qui che in agosto un drone ha abbattuto Abu Muhammad al-Adnani, capo indiscusso dei «cani d’attacco» del Califfato, nonché portavoce dell’Isis. Al tempo stesso, Al-Bab separa i due territori tenuti dalle forze democratiche guidate dallo Ypg curdo, i cantoni di Kobane da quello di Afrin, dove continuano ad affluire profughi. La Turchia ha un ruolo chiave nel processo negoziale prefigurato con la tregua annunciata la scorsa settimana da Mosca, e sottoscritta dai principali gruppi di ribelli – quaedisti e Stato islamico esclusi.
Significativamente i curdi delle Sdf/Ypg, seguiti da 600 forze speciali statunitensi e impegnati a combattere l’Isis attorno alla sua capitale siriana, Raqqa, non sono menzionati nei documenti che accompagnano il cessate il fuoco.
Assad punta a ri-allinearli al regime, e a riportare la bandiera della Repubblica Araba di Siria nelle loro roccaforti. I russi, che li hanno abbandonati dando alla Turchia l’ok all’ingresso in armi, puntano a una mediazione nel nome di una Repubblica Democratica di Siria. I curdi sembrano disponibili a un compromesso sui simboli, rinunciando al curdo Rojava, per abbracciare il nome più inclusivo di Siria del Nord in un contesto federale. Nel mentre, tanto per chiarire le proprie intenzioni, Ankara continua a martellare lo Ypg nonostante la tregua di cui è garante, e dichiara che la propria operazione ha eliminato 306 militanti curdi siriani.
In questo triangolo fra questione araba, curda e turca, caratterizzato dai testacoda e dalle fibrillazioni della scena politica dominata da Erdogan, si gioca una partita estremamente instabile, in cui il sedicente Califfato muove i suoi uomini con l’intento di deviare il corso del calcolo strategico e conquistare margini di manovra. Ancora una volta lo Stato Islamico si mostra tragicamente, prima ancora che una forza in sé, la sponda su cui si rispecchia la debolezza del disegno altrui.
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