by Chiara Cruciati, il manifesto | 3 Gennaio 2017 9:31
Il Ministero degli Interni se la prende con i socialisti, arrestati mentre commemoravano le vittime, ma il governo non ammette ancora la responsabilità politica di aver trascinato il paese sul baratro
I sospetti della prima ora hanno trovato conferma: il massacro di Capodanno al club Reina di Istanbul è opera dello Stato Islamico. Il gruppo ha rivendicato l’attentato e l’uccisione di 39 persone sull’agenzia Amaq, definendo il responsabile un «eroico soldato del califfato che ha attaccato il più famoso nightclub dove i cristiani celebravano la loro festa pagana» e aggiungendo che ha agito «in risposta agli ordini» del leader al-Baghdadi.
Non è ancora chiaro se l’azione sia imputabile ad una cellula direttamente collegata con la leadership islamista (voci parlano della stessa che attaccò l’aeroporto della città a giugno) o se per “ordini” si intendono le dichiarazioni dell’autoproclamato “califfo” che in passato ha fatto appello ad aspiranti adepti a colpire nei paesi di residenza.
Ma ormai è palese la rottura tra Ankara e Isis, tra un governo che ha permesso mobilità e ampliamento del raggio d’azione islamista in chiave anti-Assad e anti-kurda e un movimento che guarda il cambio di rotta turco come un tradimento. Negli ultimi giorni il governo dell’Akp aveva fatto arrestare decine di sospetti membri dello Stato Islamico, i cui luoghi di reclutamento – secondo numerosi attivisti – erano noti da tempo alle autorità. Un totale di 147 in una settimana, detenuti in diverse province del paese, da Smirne a ovest a Hatay, Adana e Mersin a sud.
Ieri, mentre terminavano le procedure di identificazione delle 39 salme (11 cittadini turchi e 28 stranieri, per lo più da paesi arabi), la polizia ha compiuto altri otto arresti, persone apparentemente collegate all’attacco al Reina e al responsabile, forse proveniente da Uzbekistan, Kirghizistan o Xinjiang cinese e tuttora in fuga.
Non mancano le critiche verso le forze di sicurezza: erano 25mila i soldati dispiegati a Istanbul la notte del 31 dicembre, ma non è stato comunque possibile fermare un uomo armato di kalashnikov e 120 munizioni, che ha viaggiato su un taxi per un’ora prima di arrivare nel quartiere di Ortakoy, scendere e camminare per 5 minuti fino al club. In molti imputano alla massiva campagna di epurazione – partita dopo il fallito golpe del 15 luglio – una maggiore inefficenza delle forze di sicurezza, decapitate e indebolite da arresti e sospensioni.
Un pugno di ferro contro qualsiasi presunta minaccia all’autoritarismo: ieri membri del gruppo di sinistra Halkevleri, del Partito Socialista degli Oppressi e del suo gruppo giovanile, la Federazione dei Giovani Socialisti, sono stati arrestati mentre commemoravano la strage al Reina. I discorsi tenuti durante il raduno sono stati filmati e pubblicati sulla piattaforma Twitter del Ministero degli Interni accompagnati dalla richiesta di intervenire contro i «traditori». Il Ministero ha risposto: «La vostra richiesta è stata girata alle unità anti-terrorismo. Per favore informateci su qualsiasi cosa vediate». Poco dopo il post è stato cancellato dalla pagina sommersa da un’ondata di critiche.
Ma basta a trasmettere l’atmosfera che si respira in Turchia, un paese spinto dal suo governo verso una nuova forma di nazionalismo islamista, infarcito di paura per i nemici interni che Ankara ha fabbricato e terrorizzato da quelli che si è attirato con politiche scellerate. E se i kurdi sono in cima alla lista (subito il Pkk ha fatto sapere ieri di non essere responsabile dell’attacco), il presidente Erdogan evita di assumersi la responsabilità di aver trascinato il paese sul baratro, tra una quasi guerra civile con la comunità kurda e la destabilizzazione apparentemente irreversibile del Medio Oriente.
Ieri, durante l’incontro con l’esecutivo al palazzo presidenziale di Ankara, Erdogan ha accusato i terroristi di voler generare il caos. Ma il caos è già realtà, la Turchia è divisa e debole, preda di gruppi terroristici non più controllabili dal governo e polarizzata da politiche repressive che hanno condotto all’arresto di 10 deputati di opposizione, tutti del partito pro-kurdo Hdp, e di oltre 140 giornalisti.
La stessa tempistica del massacro del Reina dice molto: giovedì sono stati annunciati l’accordo Turchia-Russia-Iran sul negoziato siriano e la tregua in tutto il paese; sabato il Consiglio di Sicurezza dell’Onu li ha accolti in una risoluzione. Si legittima così la road map turco-russa, fondata sulla permaneanza almeno temporanea al potere del presidente Assad e la sconfessione dei gruppi che per anni sono serviti a farlo cadere. Ora si ribellano all’abbandono dell’obiettivo comune, la nascita di un”sultanato” sunnita.
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