Caccia all’uomo in tutta Istanbul

Caccia all’uomo in tutta Istanbul

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ISTANBUL Lo coprono con una bandiera turca che sembra un sudario. Lo nascondono con scudi di polizia e lastre blindate dei camion antisommossa. Il Bataclan del Bosforo non si deve vedere. Resta lontano un centinaio di metri, sulla Muallim Naci Caddesi. Un ingresso, quello del civico 44, che simboleggia l’entrata in un anno già peggiore dei peggiori. «Vogliamo portare questi garofani rossi in ricordo dei caduti!», grida un po’ retorico e in favor di telecamere il sindaco di Besiktas, ma gli ordini del Sultano Erdogan sono tassativi: silenzio stampa e nessuno disturbi la caccia all’uomo.

C’è in giro «il bastardo di Istanbul», come lo chiamano sui social. Bisogna prenderlo vivo, è l’ordine. Spremerlo per capire. La polizia ha diffuso un fermo immagine, che mostra un giovane con barba e capelli neri. Ci sono dubbi sul fatto che il ricercato sia davvero lui. Ci sono però elementi per pensare che i tratti siano asiatici. E non escludere quindi che possa trattarsi d’uno straniero. Non sarebbe una novità: c’era un ceceno con grande esperienza di jihad in Siria, lo scorso giugno, dietro l’assalto e i 45 morti all’aeroporto Atatürk. Ed erano un russo, un uzbeko e un kirghizo i kamikaze dei più devastanti attacchi terroristici a Istanbul. La connessione caucasica potrebbe tornare nella strage del Reina Club, assieme magari a una pista afghana, uzbeka o uigura: quest’ultima minoranza cinese islamica, che parla turco, ha una sua robusta base nel Paese e soprattutto qualche legame storico sia con Al Qaeda che con l’Isis. Resta naturalmente l’idea curda, che però nelle ultime ore ha perso un po’ di consistenza.

Il presidente, coi suoi, ieri ha fatto cenno chiaramente al vivaio di jihadisti alimentato dai campi profughi iracheni e siriani. Rimangono aperte tutte le vie, ma «abbiamo già raccolto qualche prova e potremmo essere sulla strada giusta», è ottimista a sera il ministro dell’Interno, Süleyman Soylu: il governo ha bisogno d’una risposta a questo terribile dicembre d’attacchi e attentati, e la cattura a questo punto s’impone.

La gigantesca caccia all’uomo, cominciata sabato notte, muove dal quartiere di Ortakoy, dove c’è stata la strage, e punta su una rete d’appoggi di cui lo sparatore avrebbe goduto: ieri pomeriggio un blitz dei corpi speciali turchi, in un distretto vicino alla discoteca, avrebbe dato «elementi d’indagine» per escludere che si tratti d’un lupo solitario.

Le stesse immagini delle telecamere, dove si vede chi spara vestito in maniera diversa — oltre alle testimonianze di alcuni sopravvissuti che parlano di più punti da cui s’udivano i colpi —, fanno pensare che l’azione sia quella d’un piccolo commando.

Non è chiaro nemmeno perché nelle immagini il terrorista compaia prima in bianco e poi in scuro, un momento con lo zainetto e poi senza: è possibile che abbia avuto il tempo di cambiarsi? O che l’azione sia stata coordinata da una mente esterna? O che sia stata interrotta da qualcosa o da qualcuno?

Il lavoro d’investigazione, adesso, è nel confrontare le segnalazioni delle ultime settimane. I servizi turchi avevano indicato proprio la zona del Bosforo come una delle più vulnerabili. E le parole del proprietario del Reina, che ha detto d’avere ricevuto un preallarme dall’ambasciata degli Stati Uniti, hanno costretto Washington a un’inusuale smentita: nessun avvertimento, solo un generico messaggio di cautela inviato per il periodo delle feste a tutti i connazionali. In realtà, quando si tratta di Turchia, il governo americano è sempre andato oltre i normali alert che diffonde in altri Paesi dell’area, come l’Egitto o la Giordania.

Dall’evacuazione del personale al consolato d’Istanbul all’ipotesi d’attacchi contro marchi di multinazionali, vedi Starbucks, gli Usa finora hanno raramente toppato. Ce n’è abbastanza perché Erdogan torni a insinuare il complotto. O più semplicemente, perché la situazione appaia chiara: la Turchia ha troppi nemici, per permettersi di trascurare le soffiate.

Francesco Battistini



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