Iván Cepeda: Dopo mezzo secolo, può finalmente scoppiare la pace in Colombia

by Orsola Casagrande e José Miguel Arrugaeta, Rapporto sui diritti globali | 2 Gennaio 2017 14:46

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Intervista a Iván Cepeda, a cura di Orsola Casagrande e José Miguel Arrugaeta, dal 14° Rapporto sui diritti globali

Il senatore colombiano Iván Cepeda sostiene in questa intervista che il processo di pace tra governo colombiano e guerriglieri delle FARC-EP in corso all’Avana, è un evento epocale e che l’accordo di cessate il fuoco bilaterale e cessazione delle ostilità, firmato il 24 giugno 2016, ha segnato l’inizio di una nuova epoca per il suo Paese, perché ne consentirà la democratizzazione, dopo oltre mezzo secolo di conflitto.

 

Redazione Diritti Globali: Recentemente il governo e le FARC hanno firmato all’Avana un accordo di cessate il fuoco bilaterale e un piano congiunto di raggruppamento dei guerriglieri in zone di pace a cui seguirà la messa fuori uso delle armi con la verifica internazionale. Come giudichi questi ultimi annunci?

Iván Cepeda: Si tratta, né più né meno, della dichiarazione ufficiale di cessazione del conflitto armato in termini militari. Vuol dire porre fine a oltre mezzo secolo di scontri che hanno fatto, complessivamente, milioni di vittime in Colombia. È un accordo che divide la storia contemporanea della nostra società in due e segna l’inizio di una nuova epoca, che consentirà la democratizzazione del Paese e lo sviluppo delle lotte sociali senza il pericolo dell’eliminazione fisica di chi vuole un cambio sociale.  È il frutto di un accordo raggiunto tra militari e guerriglieri, il che lo rende ancor più meritorio. Non è la pace, però, sì, è l’inizio della costruzione della pace.

 

RDG: In attesa dell’Accordo finale…

IC: Rimangono, senza dubbio, da risolvere temi nevralgici dell’agenda dei negoziati. Per esempio, la questione cruciale della forma in cui le FARC-EP si reincorporeranno alla vita sociale, politica ed economica al tempo stesso, trasformandosi in una forza civile e legale. C’è poi la questione della loro partecipazione politica, del rispetto degli accordi, della loro implementazione legale, della verifica internazionale e nazionale di questa implementazione. Quindi ci sarà la ratifica degli accordi, mediante voto popolare e il periodo in cui i guerriglieri saranno concentrati nelle “zone di pace” e prepareranno, tra l’altro, la messa fuori uso delle armi, con verifica internazionale. Sarà un periodo in cui saranno messe alla prova le garanzie di sicurezza e in cui bisognerà sconfiggere le strutture del paramilitarismo e dei settori militaristi dell’estrema destra, che cercheranno di intralciare la costruzione della pace.

 

RDG: La differenza di tempi nelle trattative con l’altra formazione guerrigliera, l’ELN (Ejercito de Liberacion Nacional), può causare una pace, per così dire, a tappe?

IC: Sono convinto che la pace con l’ELN sia indispensabile e che sia possibile in questa tappa, in modo simultaneo con la costruzione della pace che inizierà a partire dall’Accordo finale raggiunto all’Avana. Non condivido lo scetticismo sul processo con l’ELN, né l’idea che fare la pace con l’altro gruppo guerrigliero storico sia missione impossibile. Di fatto, già si è registrato un primo accordo tra il governo e l’ELN: si è elaborata una agenda per i negoziati e si è deciso di instaurare un tavolo di dialogo. Credo che presto si istallerà questo tavolo e che il processo con l’ELN sarà ugualmente con esito positivo.

 

RDG: Il processo di pace tra FARC e governo è iniziato ormai quasi quattro anni fa. Che ripercussioni hanno avuto i colloqui nella società colombiana?

IC: Penso che questo sia stato il successo politico più importante per il Paese da molti anni, l’evento più democratico che si sia verificato, quello che ha permesso l’emergere di una nuova situazione politica. Non credo sia una coincidenza il fatto che questi anni di processo di dialogo siano stati anche quelli di maggior mobilitazione sociale. Il processo di pace ha consentito in molte zone di conflitto l’espressione delle organizzazioni e delle comunità che sono state storicamente di resistenza e che non avevano sinora potuto esprimersi apertamente e pubblicamente. Tutti questi settori sono usciti a proteggere, difendere e accompagnare il processo di pace. A mio modo di vedere, si tratta di una delle espressioni dell’impatto positivo che ha avuto nel Paese il processo di dialogo. Si tratta di un fatto politico di ampio spettro, che ha avuto ripercussioni non soltanto in Colombia ma anche a livello internazionale.

 

RDG: In che misura si può affermare che la costruzione della pace in Colombia si può contestualizzare in un confronto di forze a livello più internazionale?

IC: Il processo di pace si iscrive in una dinamica internazionale di quelle forze che vogliono cercare quella che chiamiamo pace, come antidoto a una formula che il neoliberalismo si impegna a mantenere e instaurare in modo sempre più profondo. E penso alla continuità, per esempio, di conflitti o al sorgere di nuovi conflitti armati. Siamo in una fase critica del modello che permette ai settori legati a ciò che si chiama complesso militar-industriale, negli Stati Uniti e in altre parti del mondo, di mantenere tale modello in vigore. Si tratta, in generale, di settori molto legati alla destra politica e al capitale finanziario.

Direi, dunque, che il processo di pace colombiano ha prodotto un elemento di rinnovazione e democratizzazione politica, per questo i suoi nemici vorrebbero sbarrargli il passo, perché temono che se continuerà ad avanzare potrà alla lunga consentire, non solo l’emergere della mobilitazione sociale, ma anche di una situazione politica inedita, con una serie di trasformazioni di carattere democratico che potrebbero dar vita in ultima istanza alla creazione di un nuovo potere politico.

 

RDG: Come giudichi gli accordi già raggiunti all’Avana?

IC: I tre primi accordi dell’Agenda rappresentano una serie di cambi che, se si daranno compiutamente, potrebbero produrre, nella loro applicazione simultanea e coordinata, e non come punti separati, riforme che sono intimamente legate e che potranno permettere che le forze alternative, di sinistra e progressiste, abbiano condizioni reali per accedere prima di tutto a una serie di luoghi di rappresentazione popolare, però anche a nuove forme di costruire un potere sociale, politico ed economico. Per questo ogni passo in questo processo è stato segnato da una forte lotta, e continua a esserlo, contro quei settori che vorrebbero impedire questi cambiamenti.

 

RDG: A chi ti riferisci quando parli di settori contrari alla pace?

IC: Per me è stata rivelatrice una frase dell’ex presidente e oggi senatore Álvaro Uribe, che dimostra la preoccupazione di questi settori di estrema destra in relazione a ciò che sta succedendo all’Avana: quello che più lo feriva, ha detto Uribe, era il fatto che le FARC avessero recuperato una voce politica che per anni lui stesso era riuscito a bloccare. Che le FARC – e l’ELN – possano in un momento determinato passare dalle armi all’esercizio della politica è la più grande preoccupazione di questi settori. Vedono questa possibilità con panico, perché il problema è che la guerra in Colombia ha strutture economiche invisibili: abbiamo un complesso militar-industriale interno.

 

RDG: Su quali basi e argomentazioni si strutturano queste forze contrarie alla pace?

IC: La società colombiana è la più militarizzata dell’America Latina. Siamo il Paese con il maggior indice di investimento militare rispetto al Prodotto Interno Lordo. Insieme, le forze armate e di polizia, le imprese private di sicurezza e la presenza di mercenari è molto significativa e può arrivare a 750 mila persone. Questa è la base sociale che si cerca di usare per generare una corrente di opinione sociale contraria al processo di pace. L’estrema destra e i settori contrari al processo hanno giocato con la paura in maniera intenzionale. Così ci sono una serie di ostacoli che dobbiamo ancora abbattere.

 

RDG: Qual è la posizione del governo di Juan Manuel Santos?

IC: Usa linguaggi diversi, uno per gli accordi dell’Avana e un altro per l’agenda legislativa del governo: sembra che in Parlamento si approvino norme su misura per limitare o ritardare gli accordi che si firmano al tavolo dei negoziati. Voglio dire che si sta preparando un tessuto legale e costituzionale che renderà difficile l’applicazione degli accordi, per esempio il piano nazionale di sviluppo. Si sta cercando di fare in modo che i cambiamenti che si daranno con la fine del conflitto siano il meno dolorosi possibile per chi ha monopolizzato storicamente il potere in Colombia.  È la vecchia discussione sui costi della pace per quelli che controllano il potere politico in Colombia.

 

RDG: Come giudichi il ruolo dei mezzi di comunicazione e la loro influenza in questo processo?

IC: C’è una costante azione che ha il fine di rompere o limitare al massimo il risultato dei colloqui. C’è una centralizzazione e un monopolio dei media e delle imprese di sondaggi. In questa situazione è difficile costruire un’opinione matura e equilibrata sul processo di pace. Per cui c’è una sorta di nebbia mediatica e di opinioni. Come si costruisce, per esempio, un determinato immaginario in cifre? Beh, attraverso delle imprese di sondaggi che fanno domande specifiche volte a ottenere un determinato tipo di risposte su questioni molto complicate. Nonostante queste difficoltà – e nemmeno i peggiori nemici della pace hanno la faccia tosta di smentirlo – il processo di pace è in corso, le notizie che giungono dall’Avana fanno notizia e generano opinione. Tutti i giornalisti più quotati e popolari hanno scritto del processo di pace e nessuno ha osato chiederne la rottura o l’abbandono. La lotta per la pace, o almeno per la cessazione del conflitto, impone sfide molto serie dal punto di vista della coscienza politica.

 

RDG: Una delle questioni più delicate e complesse vista la grandezza delle cifre del conflitto storico, è quella delle vittime e della giustizia. Come giudichi i progressi fatti su questo punto?

IC: Come membro del movimento nazionale delle vittime di crimini dello Stato posso dire che abbiamo proposto una discussione sul significato di risarcimento, riparazione e su chi sono le vittime. Sarebbe assurdo pensare che il conflitto amato e la violenza che ha vissuto il nostro Paese non abbiano lasciato un’eredità pesantissima di dolore e sofferenza a tutti i livelli della società. Quasi ogni famiglia colombiana è stata segnata dal conflitto e questo peso di dolore e sofferenza deve trovare una soluzione negli accordi. I contadini e il settore rurale, in generale, sono quelli che hanno sofferto maggiormente il conflitto. Ci sono rapporti ufficiali che dicono che 6 vittime su 10 sono contadini o gente dei campi. La domanda allora è: qual è il risarcimento, la giustizia per queste vittime? La prima risposta, forse la più idonea, è che bisogna vedere il risarcimento e la giustizia in una doppia prospettiva: la prima è che bisogna risarcire queste persone che sono la maggior parte dei 7 milioni di vittime che abbiamo in Colombia. Per risarcire intendo dar loro le condizioni di una vita degna. Le organizzazioni contadine e i profughi interni hanno detto che la prima cosa da fare è restituire loro la terra espropriata. In Colombia c’è una legge sulle vittime, la 1448, ma è una goccia nel mare: lo Stato ha restituito ai contadini soltanto 80 mila dei milioni di ettari di terra espropriata. Il problema non è solo la restituzione della terra, ma la restituzione con sostenibilità. Il ritorno coinvolge milioni di persone. Ma qui si vuole ridurre il problema in maniera drastica a una domanda che sembra “d’obbligo” per l’opinione pubblica: i leader della guerriglia pagheranno o no con il carcere? La seconda prospettiva, cui facevo riferimento poc’anzi, riguarda le misure che si prenderanno per far sì che settori che sono stati letteralmente sterminati in Colombia in passato, possano tornare a esercitare i loro diritti politici. E mi riferisco evidentemente al Partito Comunista, la Unión Patriotica, le organizzazioni contadine e sociali, eccetera. È necessario che le misure esaminate nel Punto Vittime dell’Agenda siano relazionate al secondo Punto di accordo: ci deve essere un processo di creazione delle condizioni per cui queste organizzazioni di vittime vengano risarcite sul piano politico, sul piano della verità storica, sul piano del recupero dei loro diritti. E ovviamente qui sta il problema della verità storica.

 

RDG: La verità può essere sacrificata per raggiungere un accordo di pace finale?

IC: All’Avana, per la prima volta nella storia, si è redatto un Rapporto che ha un carattere ufficiale, risultato di un accordo politico nel quale ci sono più di una versione della storia. In altre parole: si può vedere la realtà da diverse prospettive e questo mostra che si sta facendo sul serio; questo Rapporto è una specie di coperta patchwork, di mosaico. In questo documento hanno scritto esperti illustri, che hanno detto cose che non si erano mai dette prime ufficialmente. Una, elementare, che gli Stati Uniti hanno avuto una partecipazione diretta nel conflitto armato e hanno utilizzato la cosiddetta “guerra alla droga” come pretesto per intervenire. Alla fine del processo di pace ci sarà una relazione condivisa con i cittadini in Colombia sulla realtà storica, sicuramente ci vorranno decenni prima di poter stabilire quello che è stato nella realtà colombiana. Ci sarà – di fatto è già in corso – un gran dibattito che porrà la questione del riconoscimento delle responsabilità al massimo livello e naturalmente il tema della non ripetizione, che è un aspetto intrinsecamente legato ai diritti delle vittime.

 

RDG: A livello internazionale affiora una corrente di pensiero riduttiva, che in qualche modo identifica l’accordo con le FARC e il suo disarmo alla pace. Che pensi di questa idea?

IC: Questa idea che la guerriglia metta fuori uso le armi e che, quasi un atto magico, sparisca la possibilità che in Colombia ci sia un conflitto armato in futuro è chiaramente falsa. La domanda in realtà dovrebbe essere: E il paramilitarismo? Questo apparentemente “piccolo dettaglio” continua a essere una realtà molto presente in varie zone rurali e cittadine. Le popolazioni vittime dei paramilitari come potranno avere la certezza che in futuro non succederanno nuove barbarie come quelle commesse da queste strutture durante il conflitto? Come affronteremo il problema della corruzione delle forze militari e di polizia?

Ci sono una serie di questioni molto importanti a cui bisogna dare risposta ed è quello che si sta cercando di fare all’Avana. Il modello che uscirà dai negoziati dovrà essere soddisfacente per tutte le vittime, quelle causate dallo Stato e il potere politico, quelle causate dalla guerriglia e altre. Bisognerà prendersi responsabilità e di conseguenza applicare sanzioni. Sapendo che attualmente gli unici condannati dalla giustizia colombiana sono i guerriglieri. Succederà lo stesso con i responsabili politici dello Stato? A mio modo di vedere, questo è un modo un po’ ingenuo di porre la questione. Con molta onestà e crudezza dobbiamo chiederci se vogliamo davvero che questo processo abbia successo e sia sostenibile nel tempo. Le vittime dello Stato non spariranno miracolosamente con un accordo firmato all’Avana. Queste e altre sono domande che bisogna affrontare in tutti i loro aspetti se vogliamo davvero costruire una pace giusta e duratura.

 

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Iván Cepeda: è nato a Bogotá, Colombia, nel 1962. Attualmente è senatore del Polo Democrático Alternativo e membro del MOVICE, un gruppo di associazioni di vittime del terrorismo di Stato. Suo padre, Manuel Cepeda, è stato un dirigente del Partito Comunista colombiano e un leader della Unión Patriotica, assassinato nel 1994. In quello stesso anno, il figlio ha istituito la Manuel Cepeda Vargas Foundation in memoria del padre; tra i suoi obiettivi l’impegno per la pace, la giustizia sociale, la cultura e la promozione della memoria storica attraverso strumenti educativi.

Laureato in filosofia e specializzato in diritto internazionale e umanitario Iván Cepeda è oggi una delle voci più autorevoli e impegnate nella ricerca della pace e per il rispetto dei diritti umani in Colombia. Con Jorge Rojas, direttore della Consulta per i diritti umani (CODHES), ha pubblicato il libro A las puertas de El Ubérrimo (Random House, 2008).

 

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