by Alfredo Marsala, il manifesto | 14 Dicembre 2016 9:10
Due colpevoli, un maxi-risarcimento da 10 milioni di euro che mai nessuno pagherà a familiari e superstiti e qualche ombra, come quella scatola nera del mercantile portoghese King Jacob ritrovata con appena 12 ore di registrazione.
Il processo per il più grande naufragio nella storia del Mediterraneo – avvenuto al largo della Libia il 18 aprile del 2015, con ben 700 morti e 28 sopravvissuti – si è chiuso, in primo grado, con la condanna a 18 anni per Mohamed Alì Malek, tunisino di 27 anni considerato il «capitano» del peschereccio della morte, e a 5 anni per Mahmud Bikhit, siriano di 25 anni, indicato come il «mozzo». I due sono stati condannati dal gup di Catania, Daniela Monaco Crea, per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, il «capitano» anche per omicidio colposo plurimo e naufragio. Per il procuratore Carmelo Zuccaro, che ha seguito il processo con i sostituti Rocco Liguori e Andrea Bonono, la sentenza si può ritenere storica perché «afferma due importanti principi giuridici: la giurisdizione e il riconoscimento delle parti offese».
In sostanza, spiega il magistrato, «ha riaffermato la legittimità italiana per i delitti di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare commessi in acque internazionali ma con una preordinata richiesta di soccorso in mare da parte dei trafficanti, e ha sancito la qualità di persone offese, e non di indagati in procedimento connesso, per i migranti tratti in salvo prima dell’arrivo in Italia». Gli imputati si sono sempre proclamati innocenti, sostenendo di essere dei semplici «passeggeri» come gli altri del barcone: il siriano ha accusato il co-imputato, confermando quanto riferito agli inquirenti dagli altri testimoni, di essere il «comandante», mentre quest’ultimo ha sempre sostenuto di avere visto i componenti dell’equipaggio ma di non averli individuati tra i sopravvissuti.
Secondo l’accusa il naufragio «fu determinato da una serie di concause, tra cui il sovraffollamento dell’imbarcazione e le errate manovre compiute dal comandante che portarono il peschereccio a collidere col mercantile King Jacob», intervenuto per soccorre i migranti. «Siamo soddisfatti della sentenza che riconosce, credo per la prima volta in Italia, i migranti trasportati come parti lese, riconoscendo un risarcimento del danno, ha un grande valore simbolico», commenta l’avvocato Giorgio Forestieri, che rappresentava due dei 28 sopravvissuti, entrambi del Bangladesh, ammessi come parti lese nel processo.
Probabile che gli avvocati dei due imputati facciano ricorso. «Aspettiamo i 90 giorni per il deposito della sentenza e poi ricorreremo in appello, perché sono pienamente convinto dell’innocenza del mio assistito», afferma Giuseppe Ivo Russo, che difende il siriano Mahmud Bikhit. È convinto che ci siano «elementi processuali per dire che lui non aveva alcun ruolo: ci sono quattro superstiti che confermano come Bikhit fosse un migrante come loro che stava aspettando di partire per l’Italia».
Anche Massimo Ferrante, legale del tunisino, ritiene il suo assistito «innocente», anche se la verità processuale al momento è un’altra: «Vedremo in appello». Per il penalista «in questo processo parliamo di un incidente navale in cui non c’è la scatola nera: la polizia è andata a sequestrarla dieci giorni dopo, ma c’erano soltanto le ultime 12 ore».
Fu proprio quando il mercantile si avvicinò per prestare soccorso che il peschereccio stracolmo di disperati si capovolse. Decine di persone finirono in mare, il King Jacob lanciò le scialuppe ma nemmeno un terzo dei migranti riuscì a salvarsi. Gli altri furono risucchiati dal mare o intrappolati nel barcone dell’orrore.
Quel che è rimasto del barcone è stato trasportato ad Augusta lo scorso giugno. Nel molo fu costruita una tensostruttura refrigerata, una sorta di mega cella frigorifera lunga 30 metri, larga 20 e alta 10, per contenere il peschereccio. Qui furono effettuate le operazioni di recupero di circa 250 salme di bambini, donne e uomini senza volto, senza nome. Corpi martoriati, dilaniati dai pesci e dal mare, rimasti più di un anno negli abissi, intrappolati nella stiva: i trafficanti avevano sigillato i portelloni per impedirne l’uscita mentre il barcone affondava.
Quando il King Jacob approdò nel porto di Palermo i marinai filippini chiesero l’aiuto di un prete e di una squadra di psicologi per superare lo shock.
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