L’occasione odierna ha avuto peraltro caratteristiche uniche: di fatto, il Presidente della Fondazione Censis – Centro Studi Investimenti Sociali ha effettuato una sorta di bilancio di lungo periodo della propria attività e della struttura che ha fondato, annunciando che non sarà lui a presentare la prossima edizione. D’altronde, il rapporto è stato presentato oggi nella sala – come sempre affollata – del cosiddetto Parlamentino del Cnel, quel Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, che se vinceranno i “sì” al referendum di domenica 4 dicembre, sarà destinato a sicura estinzione (anche se molti sostengono che, da anni, l’anagrafe… non rilascia ormai più il certificato di “esistenza in vita” del Cnel). Se non ci sarà nel 2017 il Cnel, non ci sarà nemmeno il rapporto annuale del Censis, che dal Cnel è stato promosso “ab origine”?! Non crediamo che una struttura consolidata come Censis abbia ormai più necessità del sovvenzionamento del Cnel, per reperire le risorse economiche necessarie per la realizzazione di uno strumento di conoscenza che enti pubblici non riescono a produrre (il riferimento più banale è all’elefantiaca Istat).
Il concetto che De Rita ha focalizzato – citandolo decine di volte – è “ruminazione”: l’Italia, secondo lui, è un Paese “ruminante”, anche rispetto alla lentissima metabolizzazione della rivoluzione digitale. Un Paese ruminante che però sta – in fondo – meglio di quel che appare. Se dovessimo sintetizzare in due parole il senso dell’interpretazione di De Rita potremmo usare l’espressione “cauto ottimismo”. Il “tessuto sociale” regge, sostiene il Censis.
Quel che ci ha convinto di più è stata la serena, lucida, pacata lamentazione di De Rita, rispetto ai perduranti deficit di “autocoscienza collettiva” che il Paese ha ancora, soprattutto a livello istituzionale e di classe politica.
L’Italia si conferma un Paese che presta poca attenzione alla ricerca, ed anche la fenomenologia dei processi sociali (“noi siamo fenomenologi della società” – ha precisato il Presidente del Censis – “non sociologi, non economisti, non giuristi”) è ancora oggi poco ascoltata, poco recepita dai “decision maker”.
Abbiamo sentito l’eco di una qual certa frustrazione del “consulente”, rispetto alla diffusa autoreferenzialità del “politico” (italiano) di professione e del rappresentante delle istituzioni, ma al tempo stesso l’orgoglio dell’intellettuale critico che ha saputo vedere prima, molto prima, ed ha dimostrato buone capacità predittive (basti pensare all’economia del sommerso o alla centralità della famiglia nello sviluppo della società italiana), purtroppo non messe sufficientemente a frutto da parte di chi la società ha governato e governa.
Se un rilievo si può muovere a De Rita – e forse più in generale al Censis – è forse l’eccessiva moderazione dei toni e la pacatezza dell’analisi, ben differenti dalle dinamiche che hanno caratterizzato colui che riteniamo essere l’incarnazione dell’intellettuale critico e dissacrante, Pier Paolo Pasolini. In un Paese sempre più abituato alla politica “urlata”, il tono moderato del Censis finisce per forse non convincere adeguatamente i “policy maker”, anche se la rassegna stampa che il rapporto registra anno dopo anno farebbe la gioia di qualsiasi altro istituto di ricerca italiano (e forse non soltanto italiano).
La prima parte della presentazione è stata affidata a colui che forse è oggi l’“allievo” più valido di De Rita (senza dimenticare figure come Nadio Delai e Giuseppe Roma), ovvero Massimiliano Valerii (47 anni, una laurea in filosofia, nato e cresciuto in Censis, di cui è stato Responsabile della Comunicazione per oltre sette anni, nominato Direttore Generale a fine 2015): con grande lucidità, con un articolato intervento a braccio, Valerii ha concentrato la propria attenzione soprattutto sulle dinamiche economiche del nostro Paese, evidenziando contraddizioni come una bassissima fiducia degli italiani nei confronti del sistema bancario ed al contempo una eccezionale propensione al risparmio (danari anche sotto il cuscino, o comunque nelle cassette di sicurezza delle banche, oltre che su conti correnti bancari e postali e simili).
Se Valerii si è concentrato più sull’“economico”, proponendo un ricco “dataset” (basti pensare a dati come “i figli più poveri dei genitori”, ai numeri che dimostrano un’occupazione lavorativa a bassa produttività – “ci si arrangia coi lavoretti”–, alla forza dell’industria turistica, alla generosità degli italiani rispetto alle donazioni filantropiche…), De Rita ha proposto interpretazioni di approccio più “sociologico”: il problema forse più serio per la nostra società è la divaricazione tra il “potere politico” ed il “corpo sociale”, impegnati entrambi in “reciproci processi di rancorosa delegittimazione”; e le istituzioni, che dovrebbero fare da “cerniera” tra i due poli, sono in una “profondissima crisi”.
Rimandiamo alla lettura del rapporto (ovvero, per chi ha meno pazienza, alle sintesi, disponibili sul sito web del Centro), e qui ci soffermiamo sulla ideologia che ha caratterizzato il lavoro del Censis per decenni: l’attenzione per il “resto” ovvero per “i resti”, cioè quel che non è sotto il riflettore dell’attenzione polemica, politica e mediale, ovvero la spesso silente società che, seppur esclusa dal proscenio mediatico e politico, continua a mostrare vitalità ed energia.
Alcuni dati sono stati enfatizzati da De Rita: l’Italia è il decimo esportatore al mondo (2,8% del commercio globale), con i settori delle “4A” (automazione-meccanica, abbigliamento, arredo, alimentare), che primeggiano per essere “belli e ben fatti”, con 28 categorie di prodotti dove superiamo la quota del 5% di export mondiale. Aumentano, nonostante tutto, i flussi turistici (+31,2 % dal 2008 al 2015) e i giorni di presenza (+19%), ma più che nelle classiche strutture ricettive, cresce quasi del 50% l’ospitalità in quelle extra-alberghiere (che sfuggono a buona parte delle statistiche ufficiali: “credo a Roma una buona metà dei ‘bed&breakfast’ operino in nero”, ha detto De Rita).
In particolare, il Presidente del Censis si è soffermato sul settore enogastronomico che, insieme al “lusso”, rappresenta le eccellenze del “made in Italy”, ma ha rimarcato come anche la produzione di “macchinari” (che ha poca o nessuna visibilità mediatica) è un settore trainante della nostra economia.
La riflessione proposta di De Rita ci è utile per segnalare come, nei giorni scorsi, ci siano state altre occasioni di ricerca che avrebbero meritato attenzione, e che invece non sono state oggetto di adeguata visibilità (almeno sui media “mainstream”): ci riferiamo anzitutto alla 14ª edizione del “Rapporto Diritti Globali”, presentato martedì scorso 29 novembre presso la sede romana della Cgil.
Realizzato dall’Associazione SocietàInFormazione di Sergio Segio, l’edizione di quest’anno è intitolata “Fortezza Europa, polveriera mondo”, e propone, in un corposo tomo (519 pagine, Ediesse editore, 19 euro) un utilissimo apparato di dati ed analisi, in una prospettiva nazionale ed internazionale.
L’approccio, in questo caso, a differenza del rapporto del Censis, può apparire “partigiano”, ovvero parte da un’articolata critica ai fondamenti del capitalismo, e propone una lettura severa, dai toni pacati ma duri, delle conseguenze del dominante “neoliberismo”.
Il rapporto “Diritti Globali” intende infatti riepilogare, documentare e analizzare il quadro e gli effetti della globalizzazione e dell’economia mondiale, osservate attraverso soprattutto la chiave di lettura dei diritti – come si evince dal titolo stesso – e della loro interdipendenza. Si tratta di un approccio “ideologico” (ma anche quello del Censis, al di là dell’apparenza, lo è), ma non “ideologizzato”.
Il rapporto è promosso da Cgil, ma molte qualificate associazioni della “società civile” partecipano al lavoro collettivo: ActionAid, Antigone, Arci, Cnca, Fondazione Basso-Sezione Internazionale, Gruppo Abele, Legambiente.
A differenza di quel che avviene per il Censis, la presentazione è stata poco affollata, la rassegna stampa non è stata purtroppo quella che merita una simile ricerca: eppure si tratta di uno studio che può certamente competere con il rapporto del Censis, come qualità metodologica ed accuratezza analitica.
Torneremo su questo rapporto, cui pure abbiamo dedicato già attenzione – in occasione della precedente edizione – su queste colonne (vedi “I numeri della povertà in Italia e nel mondo[1]”, su “Key4biz” del 18 novembre 2015), e qui ora ci limitiamo a rimandare alla stimolante introduzione proposta da Sergio Segio, ed a domandarci da “cosa” dipenda questa differente “potenza di fuoco” nella notiziabilità?! Certo, un soggetto come l’Associazione SocietàInFormazione di Sergio Segio non ha la forza, relazionale ed economica, di un soggetto come la Fondazione Censis di Giuseppe De Rita (senza dimenticare che la prima è all’edizione n° 14, mentre la seconda alla n° 50, ed anche questo conta), ma naturale sorge il dubbio sulle conseguenze – in termini di visibilità e notiziabilità – di un approccio ideologico “soft” (Censis) e di un approccio ideologico “hard” (Associazione SocietàInFormazione). Riteniamo che sia questa una tematica che merita approfondimenti.
La settimana che volge al termine ha visto anche la presentazione di due altri strumenti, importanti per il “ricercatore sociale”, o comunque per il giornalista e finanche il cittadino attento alle tematiche sociali: ci limitiamo a qui citare due interessanti rapporti di ricerca, presentati entrambi il 29 novembre a Roma, “La salute della donna. Dalla salute al welfare femminile. Libro bianco 2016”, promosso dall’Osservatorio Nazionale sulla Salute della Donna – Onda, in sede Farmindustria (Franco Angeli editore, 29 euro), e lo “Yearbook 2016 Rischi da giocare”, promosso (ed edito, con distribuzione gratuita) dal Coordinamento Nazionale delle Comunità di Accoglienza – Cnca (finanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali), presentato presso il Ministero della Salute. Si tratta, in entrambi i casi, di apprezzabili processi di ricerca e studio che vanno nella direzione della costruzione di quella “autocoscienza collettiva” auspicata da De Rita. Entrambi gli studi meritano attenzione, e ci torneremo presto su queste colonne.
Infine, questa mattina, in contemporanea alla presentazione del 50° Rapporto del Censis, si svolgevano a Roma altri due eventi degni di attenzione – dal punto di vista dell’osservatore delle politiche culturali – ovvero gli “Stati Generali del Documentario”, promossi da Doc/it, l’associazione nazionale degli autori e produttori (le due figure spesso coincidono) dei documentaristi italiani, presso la sede della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, e la presentazione, presso il Cinema Moderno di Roma The Space, della 10ª edizione della Roma Fiction Fest, promossa dalla Regione Lazio e dall’Associazione Produttori Televisivi – Apt. Anche su queste iniziative torneremo su queste colonne, ma anche qui viene spontaneo evocare De Rita, però in chiave critica: entrambe queste due iniziative hanno infatti evidenziato un qual certo deficit di… “autocoscienza”, dato che non esistono ricerche e studi recenti che possano dimostrare come il sistema audiovisivo nazionale stia effettivamente maltrattando i documentaristi italiani, e nessuno studio di impatto che possa dimostrare che una kermesse come il Fiction Fest contribuisce realmente allo sviluppo dell’industria audiovisiva italiana…
- Clicca qui[2], per leggere la “Presentazione” di Sergio Segio al 14° “Rapporto Diritti Globali”, curato da Associazione SocietàInFormazione, presentato a Roma il 29 novembre 2016
- Clicca qui[3], per leggere le “Considerazioni generali” del 50° “Rapporto sulla situazione sociale del Paese”, curato da Fondazione Censis, presentato a Roma il 2 dicembre 2016