Guerra in Libia. Sirte è caduta, l’Isis si arrende
Sirte è caduta, stavolta sembra per davvero. Dopo mesi di annunci e smentite, le forze progovernative impegnate nella città costiera libica hanno fatto sapere ieri di aver ripreso il controllo della comunità, strappata definitivamente allo Stato Islamico. Gli ultimi miliziani si sono arresi, dopo mesi di battaglia che ha ucciso oltre 700 pro-governativi e ne ha feriti 3mila.
«Le nostre forze hanno il totale controllo di Sirte – ha detto il portavoce Reda Issa – Le nostre forze hanno assistito al collasso totale di Daesh». Con queste parole le milizie di Misurata (la potente brigata che nel 2011 ha partecipato alla caduta del colonnello Gheddafi per poi assumere il controllo di ampie porzioni di territorio macchiandosi di odiosi crimini) pongono fine ad una battaglia che solo nella sua ultima fase è durata quattro mesi.
A differenza dei tentativi precedenti di controffensiva, lanciata per la prima volta il 12 maggio scorso, stavolta il governo di unità nazionale ha avuto il sostegno diretto dell’aviazione Usa: con una mossa a sorpresa il primo agosto il presidente Obama ha annunciato il lancio di un intervento aereo a favore dei misuratini, assunti dal governo del premier al-Sarraj.
Quasi 500 raid aerei che per mesi non hanno condotto a granché: i miliziani islamisti, circa 3mila dopo la fuga di altrettanti verso il sud del paese, erano riusciti ad arroccarsi in due quartieri vicino al porto, una cinquantina di edifici quasi inespugnabili. Le forze libiche lamentavano infatti l’impossibilità ad avanzare a causa dell’uso di cecchini e kamikaze da parte islamista.
Di certo, però, quattro mesi rappresentano un tempo considerevole per l’aviazione più potente al mondo che nei giorni scorsi, tramite il Pentagono, parlava di strenua resistenza opposta dall’Isis nella città natale di Gheddafi, ponte tra Tripoli e Bengasi, tra la Tripolitania di al-Sarraj e la Cirenaica del generale Haftar.
Ora resta da vedere come l’Isis reagirà alla sconfitta. Nei mesi scorsi le ritirate obbligate tra Siria e Iraq a causa della perdita di territori occupati nei due anni e mezzo precedenti hanno spinto molti leader e miliziani islamisti a riparare in Libia dove però non hanno potuto appropriarsi delle stesse risorse espropriate in Medio Oriente. Lì avevano trovato nei pozzi di petrolio, le banche e le basi militari una ricchezza – denaro e armi – che insieme alle donazioni generose provenienti dal Golfo hanno permesso un’avanzata repentina e strutturata.
In Libia l’Isis non ha avuto la stessa base di partenza, riuscendo comunque a creare cellule a Tripoli, Derna, Bengasi, al-Khums e soprattutto a Sirte, da dove – una volta sotto assedio – buona parte dei miliziani è fuggita per riparare nella regione sud del Fezzan, al confine con Ciad e Niger: nuove cellule si sono formate, nell’obiettivo di sfruttare l’assenza dello Stato e i profittevoli traffici di armi e uomini dall’Africa sub-sahariana.
Ieri è giunto l’annuncio tanto atteso che il governo di unità spera rappresenti un’iniezione di fiducia nei propri confronti da parte di un popolo diviso e disilluso. I libici non hanno mai espresso particolare consenso al premier al-Sarraj, scelto dall’Onu e privo del sostegno di molti attori non statali, a partire da numerose milizie e tribù e del governo ribelle e parallelo di Tobruk e di Haftar.
Ma neppure a Tripoli la situazione è sotto il controllo del governo di unità: si sono riaccese nei giorni scorsi le rivalità tra milizie rivali che da venerdì hanno ucciso almeno otto persone e ne hanno ferite più di 20. Gli scontri sono esplosi tra i salafiti del gruppo Rada, appoggiati dalla Tripoli Revolutionary Brigate, attiva dal 2011, e da milizie islamiste provenienti da Misurata.
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