by Chiara Cruciati, il manifesto | 31 Dicembre 2016 9:21
Dodici mesi di stragi sanguinose, assedi brutali e civili ridotti alla fame in Siria, Yemen e Iraq, Stati moribondi
Aleppo, Manbij, Diyarbakir, Istanbul, Sana’a, Mosul, Baghdad: nomi che scorrono tra le pagine dei quotidiani, nelle agenzie online, sui social network, con un bagaglio di sangue che accappona la pelle. L’anno che si chiude sopra il Medio Oriente ha portato con sé il ribaltamento delle alleanze, la sconfitta dei progetti delle potenze regionali, un’escalation di violenza che ha travolto le vite di milioni di civili.
Raid, assedi, attentati, controffensive, tentati putsch hanno accompagnato la regione per tutto il 2016. Ma per comprendere gli sviluppi attuali è necessario un passo indietro, al punto di svolta: autunno 2015, il prepotente ritorno della Russia . In due mesi – con la creazione del centro di coordinamento a Baghdad con Siria, Iraq e Iran, l’intervento militare al fianco del presidente Assad e l’abbattimento del jet Sukhoi da parte di Ankara – la faccia della composita guerra per procura di scena in Medio Oriente è cambiata.
L’esercito dispiegato in Siria da Putin non ha solo salvato Assad, in piedi sul baratro di una guerra potenzialmente infinita, ma ha modificato l’intero equilibrio dei poteri. La contradditoria strategia Usa (un mix di dialogo senza prospettive politiche, sostegno a Stati-canaglia, il mantra del “no boots on the ground”) è spazzata via. Fino al’esclusione palese dal negoziato siriano, a meno di un mese dall’entrata in carica del presidente Trump.
Uno schiaffo che ha forse il suo massimo esempio nel rapporto Chilcot, presentato a settembre dal parlamento britannico: se sulla graticola è finito l’allora premier Blair, è il tandem Washington-Londra a restare nudo, accusato di aver lanciato un’invasione militare – quella dell’Iraq, 13 anni fa – che ha provocato il fallimento degli Stati-nazione creati artificialmente dal colonialismo europeo un secolo fa e la crescita repentina di movimenti jihadisti sunniti tra le macerie delle istituzioni nazionali.
Accanto agli Stati Uniti piangono sconfitte cocenti i paesi che da anni incendiano il conflitto regionale finanziando a man bassa fazioni salafite e islamiste in chiave anti-sciita: Turchia e Arabia Saudita. Dov’è Riyadh? Un anno fa re Salman teneva ancora in mano i fili del fronte anti-Assad, tirando fuori dal cilindro l’Alto Comitato per i Negoziati, innaturale alleanza di salafiti, laici, socialisti, da far sedere al tavolo evanescente di Ginevra. E si inventava una coalizione di 34 paesi sunniti da impiegare contro lo Stato Islamico, novello Frankenstein foraggiato per un decennio e ora ribellatosi al ventre che l’ha covato.
Ma Assad non è caduto, l’asse sciita non si è indebolito, l’Egitto accalappiato con prestiti e greggio in regalo si è defilato e lo Yemen si è trasformato in un Vietnam. Le folli spese militari e il crollo del prezzo del petrolio hanno costretto Riyadh a rivedere le proprie politiche economiche per far fronte ad un buco di bilancio senza precedenti. A pagare le spese della guerra fallita all’Iran via Sana’a è la popolazione yemenita: l’operazione militare che taglia il traguardo del secondo anno, costellata di stragi di civili, non ha portato che ad un’avanzata di al Qaeda a est e una tenuta della resistenza Houthi a nord.
Un destino simile a quello della Turchia. Il presidente Erdogan ha investito nella guerra ad Assad il sogno di un sultanato sunnita, un neo-impero ottomano di cui essere stella polare, burattinaio che avrebbe sguazzato nelle macerie dei paesi storicamente leader culturali e politici regionali, Egitto e Siria. Ha trascinato il paese sull’orlo della guerra civile interna, lo ha esposto al voltafaccia dei gruppi islamisti ingrassati per anni e alla rappresaglia russa dopo la rottura delle relazioni a novembre dell’anno scorso.
Per uscire dal tunnel, Erdogan ha ripiegato su un riavvicinamento di comodo alla Russia e una messa in dubbio della storica alleanza Nato, accanto ad una campagna epurativa che ha colpito 100mila persone dopo il fallito golpe del 15 luglio, la migliore delle occasioni per mettere definitivamente a tacere opposizioni, media indipendenti e voci critiche. Da salvare c’era l’altro grande obiettivo: la “turchizzazione” del paese, una nuova identità omologata e omogenea che passa per l’annullamento del progetto di unità kurda. In un anno Ankara ha avviato operazioni militari di una violenza inaudita contro il sud est, per poi allargare le operazioni al nord della Siria e al nord dell’Iraq, contro la galassia del Pkk.
Già, l’Iraq, paese palcoscenico del confronto dei molteplici interessi globali. La controffensiva su Mosul ne è esempio lampante, con ogni soggetto armato – esercito governativo, coalizione anti-Isis, truppe turche, peshmerga di Erbil, milizie sciite – portatore di un’agenda che non combacia con quella degli alleati di turno. Sullo sfondo, attentati brutali (difficile dimenticare gli oltre 200 morti di fine Ramadan a Baghdad) che hanno allargato i settarismi confessionali e le proteste sciite contro il governo: l’assalto al parlamento, a maggio, è il volto di uno Stato moribondo, preda succosa per gli appetiti regionali.
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