by Giuliano Santoro, il manifesto | 18 Dicembre 2016 9:44
ROMA Alle prime luci dell’alba Beppe Grillo semina i giornalisti e prende il treno per tornare a Genova. C’è ancora una lunga giornata davanti a Virginia Raggi e alla sua maggioranza. La giunta romana va verso un compromesso debole e c’è il rischio di una lunga e logorante agonia invece che di un rilancio. Di sicuro c’è una sola cosa: ci sarà un prima e un dopo queste giornate, perché una grande mutazione è andata consumandosi e si rafforza nel corso delle ore successive.
L’immagine unanime e monolitica del M5S che Grillo e Casaleggio hanno sempre tenuto a diffondere («Evitate argomenti divisivi», era uno dei mantra di Gianroberto) pare dissolta una volta per tutte. Una volta salito in carrozza, tra una telefonata e l’altra all’ombra di una galleria cercando di mettersi al riparo da orecchie indiscrete, Grillo tasta il polso dei suoi. Di fronte ai rancori reciproci non deve essersi sorpreso più di tanto. Il fondatore del M5S sa bene che le faide tra correnti e le divisioni tra gruppi locali sono una costante della storia pentastellata. Gli scontri si tolleravano fin quando non diventavano deflagranti. Poi, al momento della composizione delle liste e della scelta dei candidati alle elezioni locali dal vertice si sceglieva una delle fazioni. L’altra cadeva nel dimenticatoio, lontano dai riflettori virtuali del blog e dalla benedizione di parlamentari e portavoce locali. In casi estremi si procedeva alle epurazioni. È avvenuto anche a Roma, prima delle comunarie che hanno condotto alla scelta di Virginia Raggi, quando sono stati espulsi dai forum online numerosi attivisti.
«Sono fiera di stare dalla parte giusta», sottolinea Roberta Lombardi, tessitrice dell’opposizione interna a Virginia Raggi. Anche ieri attivissima e pronta fino all’ultimo a staccare la spina alla giunta, Lombardi esce vincitrice da queste giornate. Uno dei grandi errori di Raggi è stato quello di farsi nemiche come Paola Taverna e Carla Ruocco, che non erano partite con intenzioni ostili. A fare le spese di queste rotture è il candidato premier in pectore Luigi Di Maio. Al Campidoglio dovevano tenersi le prove generali del governo nazionale a 5 Stelle e il vicepresidente della Camera non poteva non essere della partita. Si è speso moltissimo per aiutare Raggi a superare le difficoltà nella formazione della giunta. Ecco perché in molti oggi gli chiedono il conto della crisi.
Roma è sotto i riflettori: se il Campidoglio doveva essere la stazione intermedia del percorso che conduce a Palazzo Chigi, le divisioni attorno alla sindaca si stanno ripercuotendo a catena sugli equilibri nazionali del Movimento. Di Maio viene tirato in ballo da altri parlamentari grillini. «Non sono io a dover dire cosa dovrebbe fare ora il sindaco di Roma – diceva ad esempio il deputato Giuseppe Brescia nelle ore calde per la giunta – Ma chi, all’interno del M5S, nei mesi scorsi ha difeso questa linea scellerata dovrebbe smetterla di giocare al ‘piccolo stratega’: evidentemente non ne è in grado e arreca solo danno al Movimento».
Sollecitato da un militante sul rischio che scaricare Raggi significhi perdere credibilità, un altro parlamentare in vista come Manlio Di Stefano risponde seccamente: «Il M5S non è una persona, è un’idea».
«È chiaro che per me Marra non è solo un tecnico», ha detto Roberto Fico, un altro che gongola, quando sembrava che dovesse venire giù tutto. Soprattutto smentendo la linea dettata poche ore prima, altra cosa impensabile nell’era precedente. Ormai da settimane Fico ripete che bisogna superare personalismi. La suggestione contraddittoria inscritta nelle origini del grillismo, quella di una politica «senza leader», viene impiegata per rispolverare l’anima «movimentista» e criticare il protagonismo di Di Maio. Quest’ultimo, invece, non proferisce parola. Sta zitto, insolitamente, anche Alessandro Di Battista, che ha sempre sostenuto Di Maio.
Nell’era precedente, quando si trattava di recitare le diverse parti della commedia della politica, Di Maio e Di Battista si scambiavano i ruoli: da una parte il compassato aspirante premier, dall’altra il dinoccolato agitatore di piazza. Da ieri i giochi sono cambiati. I veleni romani, con le divisioni create da Raggi attorno alle macerie del direttorio, hanno reso più esplicite fratture e dialettiche interne. Ecco perché Di Battista non si è neppure presentato al vertice notturno che doveva decidere se scaricare o meno Raggi. Mentre i partecipanti si allontanavano alla spicciolata, Grillo è rimasto a confabulare con uno solo dei parlamentari: Roberto Fico.
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