Cesare Damiano: «Ai referendum si può dare risposta in Parlamento»

by Antonio Sciotto, il manifesto | 16 Dicembre 2016 10:11

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«Il governo Gentiloni, e ancora di più il Parlamento, possono dare risposta ai tre quesiti posti dai referendum della Cgil. Sia per i voucher, che per gli appalti. Obiettivamente per l’articolo 18 la questione è più complessa, perché rappresenta uno dei cardini del Jobs Act, ma confido che discutendo una soluzione si può trovare». Cesare Damiano, esponente Pd e presidente della Commissione Lavoro della Camera, invita ad affrontare la delicata situazione aperta in questi giorni con «molto buon senso e un po’ di lucidità».

Il ministro del Lavoro Poletti, dicendo che se si andasse a elezioni anticipate si potrebbe rinviare il referendum di un anno, ha tradito una certa tensione nel governo, specie nell’area renziana. È stata una semplice gaffe o dietro c’è una reale paura del confronto sui tre quesiti Cgil e una strategia di fuga?

Diciamo che Poletti avrebbe potuto risparmiarsela, quell’affermazione: si è rivelata controproducente. Ma lui ha parlato in buona fede, e poi si è corretto. Sicuramente su questi temi, finora sottovalutati ma che io ho sollevato nella discussione interna al Pd alla vigilia della fiducia a Gentiloni, un po’ di tensione c’è. Non vorrei che un governo nato per portarci al voto dopo aver elaborato la legge elettorale, ma che ha anche altre questioni importanti da affrontare, si limitasse nella sua azione a causa dei referendum. Credo che la questione si possa affrontare con molto buon senso e un po’ di lucidità.

Attraverso il Parlamento?

I referendum devono percorrere la loro strada, il governo la sua. Non vorrei mescolare, come è stato fatto, i due piani o vincolarli l’uno all’altro in termini automatici. I referendum si devono tenere, a meno che il governo e il Parlamento non rispondano ai quesiti per via legislativa. Facciamolo, muoviamoci.

Che leggi si potrebbero proporre?

Sui voucher abbiamo in Commissione Lavoro della Camera incardinate diverse proposte di legge: due in particolare, una a prima firma mia e una dei Cinquestelle, si assomigliano. Possiamo tornare alla formulazione originaria data da Marco Biagi, che limitava i voucher a lavoro puramente occasionale o accessorio: come il giardinaggio o il badantato. Vorrei vedere tra l’altro come potrebbe opporsi la destra, che negli anni ha utilizzato Biagi come una bandiera.

C’è poi il nodo appalti.

La clausola di responsabilità in solido tra committente e imprese di subappalto l’avevo inserita quando ero ministro ai tempi del governo Prodi, ma poi è stata cancellata. Intendo riesumarla.

Infine c’è il nodo dell’articolo 18, mi pare il più controverso.

Indubbiamente è il tema più complesso dei tre, ci servirà confronto e approfondimento, ma credo che una soluzione si possa trovare. Cominceremo subito a lavorare su questi temi in Commissione Lavoro.

Ma questa ripresa del dibattito alla Camera l’avete in qualche modo concordata con qualcuno del governo o dell’entourage di Renzi o è solo una vostra iniziativa?

È per ora un percorso nostro, riprendiamo discussioni già aperte, sedute già fatte. Lo stesso premier Gentiloni ha molto esaltato l’importanza dell’attività parlamentare per la ricerca di una legge elettorale condivisa, facciamolo anche sul lavoro.

Ma quale maggioranza dovrebbe poi votarvi eventuali leggi? Intendo dire: per Renzi, per Poletti, non sarebbe una marcia indietro impossibile?

Sui voucher ad esempio non credo. Esistevano prima del Jobs Act, sono stati liberalizzati dall’ultimo governo Berlusconi. L’esecutivo guidato da Renzi ha solo alzato la soglia annuale di reddito del lavoratore da 5 mila a 7 mila euro, fascia in cui peraltro non c’è traccia di effettivo utilizzo. Anzi, nei decreti correttivi è stata poi inserita la «tracciabilità»: cioè l’obbligo di comunicazione 60 minuti prima dell’utilizzo. Ovviamente dobbiamo ancora verificare se questa abbia funzionato. Analogamente, non vedo grossi impedimenti per correzioni sulle tutele negli appalti.

Quindi la vera marcia indietro «impossibile» si potrebbe rivelare quella sull’articolo 18.

In effetti è un nodo che ha fatto parte dell’architettura del Jobs Act. Ma poi io dico alla fine neanche tanto: perché l’architrave fondamentale, e insieme l’errore, è stato negli incentivi. Ben 8.060 euro annui per tre anni: 24.180 euro di sconto per chi assumeva a tutele crescenti, più lo sconto Irap, ma solo nel 2015. Dal 2016 gli incentivi sono stati tagliati del 60%, e i dati Inps ci dicono che c’è stato un drastico calo delle assunzioni. Gli sgravi si sono rivelati una «droga» perché si è fatto il calcolo errato che si potessero agganciare a una ripresa economica che poi non c’è stata: è come quando togli il materasso a uno stuntman che si getta dal secondo piano. Alle imprese importava più la questione dei costi che non la licenziabilità. E il governo Renzi è intervenuto su un articolo 18 che era stato già svuotato dalla riforma Fornero. Una correzione adesso è necessaria: abbiamo visto che negli ultimi mesi c’è stato un incremento preoccupante dei licenziamenti disciplinari, +28%.

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