by andrea colombo, il manifesto | 13 Dicembre 2016 9:29
Paolo Gentiloni sale al Colle con la lista dei ministri in mano alle 17.30, poi tutto procede a passo di carica. Alle 20 il giuramento dei nuovi ministri, che sono quelli vecchi con una sola perdita sul campo, la ministra della Pubblica istruzione Giannini sostituita dalla vicepresidente Pd del Senato Valeria Fedeli, più altri 4 ingressi non tutti nuovi di zecca. Stamattina alle 11 la fiducia della Camera, poi quella del Senato. La prima sarà ampia, la seconda risicata: gli alati di Verdini, rimasti a bocca asciutta, non la voteranno. Qualche cosa arriverà da gruppo Misto e probabilmente da un paio di senatori di Sel che non hanno aderito a Sinistra italiana. Nel complesso Gentiloni dovrebbe veleggiare intorno ai 165 voti. Domani potrà partecipare al Consiglio d’Europa come capo di un governo con tutti i crismi, come nelle intenzioni del presidente Mattarella.
L’assenza dei verdiniani non è l’unica sorpresa, anche se la natura del governo non presenta invece alcuna sorpresa. E’ un Renzi senza Renzi ed è una fotocopia addirittura più precisa del previsto del governo uscente. Tanto che Gentiloni quasi ironizza: «Come si può vedere dalla sua composizione il governo proseguirà nell’azione di innovazione del governo Renzi». Non stupisce che il 5S Di Maio e l’ex rottamatore Civati se ne escano con la stessa battuta: «Squadra che perde non si cambia». Lo dicono un po’ tutti, da Fi che parla con Malan di «esecutivo del giglio magico» e promette «opposizione senza sconti» a Si, i cui capigruppo Scotto e De Petris bollano «un Renzi-bis camuffato che sembra un fortino assediato». Gli unici a non concordare sono i verdiniani: «Nessuna fiducia per un governo intenzionato a mantenere lo status quo». Ma parlano d’altro.
Novità in realtà ci sono, sia pure sempre all’interno della massima continuità, e sono quasi tutte in peggio. La più clamorosa è la nomina a sottosegretario unico di palazzo Chigi, posizione di immenso potere, di Maria Elena Boschi, come premio per il buon lavoro svolto con la riforma. Basta quella nomina a giustificare l’urlo poco delicato ma preciso della sorella d’Italia Giorgia Meloni: «In pratica sputano in faccia agli italiani». Lotti, che sembrava incollato al sottosegretariato alla presidenza, sarà invece ministro dello Sport: un declassamento più che netto. In parte c’entra di certo la furia della ex madrina della ex riforma, che pare abbia strepitato a voce altissima per la diminuzione del suo ruolo a tutto vantaggio di Lotti, l’amico d’infanzia suo e di Renzi. Ma in parte c’entra anche la scelta di Renzi di formare uno stato maggiore insieme all’amicone, in vista delle battaglie prossime venture.
Angelino Alfano viene promosso a ministro degli Esteri. Gli informatissimi spiegano che dipende dall’imminente processo per il ratto Shalabayeva, nel quale il responsabile del Viminale potrebbe risultare politicamente più implicato di quanto non voglia far credere. Sfugge la logica in base alla quale per parare la figuraccia internazionale Renzi, per interposto Gentiloni, ha deciso di nominarlo responsabile dell’immagine internazionale dell’Italia. Al Viminale subentra a Marco Minniti, un tempo dalemiano di ferro passato come tutta la guardia d’onore di D’Alema al renzismo nel suo caso almeno non troppo sfegatato. La promozione gli costa la delega importantissima ai Servizi segreti, che per ora resta in mano al premier e speriamo che non decida tra poco di regalarla a Boschi che già detiene il potere di nominare nei prossimi mesi mezzo mondo.
Il ministero del Sud, una creazione nuova, va a Claudio De Vincenti, già sottosegretario alla presidenza del consiglio e distintosi in questi anni come uno degli “uomini forti” del gruppo di testa renziano. Rientra poi al governo dopo 18 anni la Pd ex dalemiana Anna Finocchiaro, come ministra dei Rapporti con il Parlamento. Non sfiorati dal vento del cambiamento tutti gli altri, inclusa la ministra della Pubblica amministrazione Madia, quella della Salute Lorenzin, blindata da Alfano con la minaccia di non votare la fiducia, e il responsabile del Lavoro Poletti.
Governo fotocopia dunque, ma non solo questo. Quello voluto da Renzi è un governo indebolito intervenendo con sapienza. La chiusura ai verdiniani toglie al governo 18 voti al Senato, rendendolo come al solito fragilissimo a palazzo Madama. Lo slittamento in posizione secondaria di Lotti, come il mancato ingresso del vicesegretario del Pd Guerini, sono fatti apposta per chiarire che questo non è un esecutivo su cui il Pd investa nulla. E’ un governo pensato per sostanziare le parole del presidente del Pd Orfini: «Che arrivi a fine legislatura è inconcepibile».
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