by Luca Celada, il manifesto | 9 Dicembre 2016 10:42
Donald Trump ha basato la propria campagna elettorale sul lavoro. Il tema centrale dei suoi comizi – specialmente nelle regioni della rust belt – è stata la creazione di impiego. Per illustrare il programma anti-delocalizzazione ad esempio, il candidato Trump ha ripetutamente attaccato la Carrier, l’azienda che si apprestava a chiudere impianti in Indiana ed esportare 1.500 posti di lavoro in Messico.
Due settimane fa dalla Trump tower è giunto l’annuncio che l’intercessione diretta del presidente in pectore aveva convinto l’azienda a soprassedere e che i posti erano stati salvati. L’accordo è stato siglato, in pompa magna davanti alle telecamere, da Trump e dai dirigenti nella stessa fabbrica.
La photo-op trionfale ha però presto perso molto del lustro. I posti «salvati» intanto sono 800 invece di 1.500. Per mantenerli l’azienda ha ottenuto incentivi pubblici per $7 milioni e 700 operai sono stati comunque esodati. Un dato sottolineato anche da Chuck Jones, capo del sindacato di metalmeccanici che rappresenta i lavoratori. Trump non ha gradito le precisazioni «disfattiste» del sindacalista e lo ha attaccato per nome e cognome su twitter.
«Il sindacato dei metalmeccanici ha fatto un pessimo lavoro», ha scritto il miliardario, «non sorprende che le aziende chiudano», suggerendo a Jones di «parlare meno e diminuire le quote sindacali». «Che pensi a fare il suo governo»: è giunta secca la risposta del 70enne metalmeccanico che ha avuto l’onore di essere il primo operaio pubblicamente assalito da un presidente. Dopo gli attacchi di Trump, Jones è stato comunque inondato di telefonate minatorie e minacce di morte.
Ad un mese dall’elezione del «paladino dei lavoratori» l’ostilità verso i sindacati (come quella per minoranze e immigrati) è palpabile e in molte città sindacalisti hanno ricevuto minacce di morte.
Dietro le sceneggiate da reality Tv come quella della Carrier si delinea intanto una familiare politica di incentivi ultraliberisti alle imprese. Sarebbe cosa fatta ad esempio la nomina di Andy Puzder a ministro del Lavoro. Puzder è un magnate degli hamburger, amministratore delle catene di fast food Hardee’s e Carl’s Jr, noto per le battaglie contro i contributi sanitari e l’aumento del minimo sindacale.
Il prossimo ministro del Lavoro ha recentemente parlato dei vantaggi di una catena di ristoro interamente automatizzata poiché i robot «sono sempre cortesi, non vanno mai in vacanza, non arrivano in ritardo, non si fanno male e non intentano cause per discriminazione».
La nomina di Puzder è seguita a quella di Linda McMahon al dicastero per le piccole imprese. McMahon è una militante repubblicana di lungo corso che ha contribuito con $6 milioni alla campagna di Trump, oltreché dirigente della Wwe, maggiore promotore mondiale di wrestling con cui Trump ha annosi legami (ha interpretato la parte di se stesso in alcuni «combattimenti»).
La squadra che emerge non promette quindi nulla di buono per i lavoratori, al di là della retorica scontata su produttività e spirito di impresa. Il pronostico più affidabile sul lavoro in era Trump, lo anticipa la squadra economica di Steven Mnuchin al Tesoro e Wilbur Ross e Todd Ricketts al Commercio, un gruppo di finanzieri e speculatori legati a grandi aziende e banche di Wall street. Trump ha avuto un incontro anche col presidente della Goldman Sachs, Gary Cohn, e non è escluso un ruolo anche per lui. Si delinea quindi un progetto economico basato su deregulation, sgravi alle imprese e finanziarizzazione, come quello che dopo otto anni di Bush portò alla bolla subprime e alla catastrofe economica globale.
Il prossimo governo somiglia in definitiva sempre più a una squadra preposta alla demolizione dello Stato sociale, e allo smantellamento delle garanzie sul lavoro e non solo. All’Ambiente è andato Scott Pruitt già attorney general dell’ Oklahoma e avvocato delle compagnie petrolifere contro le norme ambientali.
Alla Sanità, Tom Price, crociato contro la riforma sociale di Obama. Siamo quindi ben oltre l’alternanza o piuttosto a una restaurazione conservatrice.
Si profila un attacco ostile e coordinato a decenni di politiche welfare e tutela sociale. Completata dalla vera e propria junta militare istallata nelle posizioni chiave di difesa e sicurezza (i 3 generali scelti finora potrebbero diventare 5), l’operazione Trump non ha precedenti.
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