Lo sconfitto detta la linea nel PD

by Andrea Fabozzi, il manifesto | 8 Dicembre 2016 10:18

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«Adesso basta con le direzioni in cui Renzi parla da solo e agli interventi vengono lasciati appena pochi minuti», aveva detto più di un dirigente del Pd, dandosi un po’ di coraggio dopo la sconfitta del segretario al referendum. E così ieri ha parlato solo Renzi, e poi basta. Riunione finita, malgrado il tentativo di Walter Tocci – uno che ha votato No e per questo è stato accolto dalle grida «vergognati» – di far presente che la linea del partito con la quale andare al Quirinale andava almeno discussa. Non c’è tempo, Renzi deve salire al Quirinale . «Discuteremo quando la crisi si sarà risolta», ha detto il presidente del partito Orfini. Inutile far notare che la direzione è cominciata tre ore più tardi della prima convocazione, il tempo ci sarebbe stato. Invece niente, nessun intervento, nessuna discussione, E poi Renzi la linea l’aveva già comunicata, prima ancora della direzione, agli «amici della enews» dal suo sito personale. «Governo di responsabilità nazionale sostenuto anche dagli altri partiti», oppure «al voto subito dopo la sentenza della Consulta».

Questa è la posizione del Pd cioè di Renzi, le due cose ancora coincidono. Nella sconfitta il presidente del Consiglio dimissionario non è molto cambiato, ha rimandato la resa dei conti interna ma ha già annunciato che sarà «dura». E ha dato un anticipo: «So che tra noi qualcuno ha festeggiato in modo non elegantissimo, lo stile è come il coraggio non ce lo si può dare». Un attacco ai rappresentanti della minoranza – già fischiati all’ingresso della direzione da truppe renziane – accusati di tradimento e anche di vigliaccheria. Nell’attesa dell’analisi del voto (ma quella delle sconfitte non c’è mai stata), il segretario, saldo nel ruolo, comincia anche a dare le carte, e può ringraziare il tempestivo assist di Pisapia: «Dobbiamo pensare cosa significa un partito a vocazione maggioritaria nel nuovo quadro».

Significa alleanze, ovviamente, a sinistra con la formazione che l’ex sindaco di Milano ha immaginato ieri, mentre a destra c’è sempre Alfano. Ci sarebbe anche la minoranza Pd, ma ancora per poco nei piani renziani. Non per niente in nessuno dei suoi scenari viene nominato il congresso, che pure allo stato potrebbe vincere facile. Il segretario prevede di risolvere la pratica cancellando ogni traccia bersaniana dalle liste elettorali.
Il piano A, quello del governo istituzionale – in ipotesi, Grasso – è quello che sembra piacere meno a Renzi, visto che già vede il rischio di «pagare il prezzo della solitudine della responsabilità»; un coinvolgimento pieno di Forza Italia è incerto mentre è certamente escluso quello di leghisti e grillini. Ma anche il piano B, elezioni subito, è diverso da quello presentato: tanto subito non potrà essere. Mettendo in fila l’udienza della Corte costituzionale sull’Italicum (24 gennaio), il tempo anche minimo per la scrittura delle motivazioni, il tempo necessario al parlamento per adeguare i sistemi elettorali residui alle decisioni della Corte e i 45 giorni almeno che devono trascorrere tra lo scioglimento delle camere e le nuove elezioni, si arriva al più presto a fine aprile. Quasi a ridosso del vertice G7 di Taormina al quale Renzi tiene molto. Ma non è solo per questo che il presidente del Consiglio uscente immagina di poter essere ancora lui a guidare l’esecutivo «elettorale», pensa cioè di poter riavere l’incarico.

In fondo ha appena incassato la fiducia del senato, il ramo più problematico del parlamento, e con un margine persino maggiore rispetto all’esordio, nel 2014. Per evitare imbarazzi (accadde a Bersani), Renzi non farà parte della delegazione per le consultazioni, basteranno i fidati Guerini, Rosato, Zanda e Orfini. La baldanza (e il consueto ritardo di 45 minuti) con la quale si è presentato alla direzione che avrebbe dovuto «processarlo» per la sconfitta, è indicativa. Come i dettagli: poco prima di recarsi al Quirinale per (in teoria) ricevere istruzioni dal presidente della Repubblica, ci ha tenuto a far sapere di aver «parlato al telefono con Giorgio Napolitano» per «ringraziarlo». Quando l’ex capo dello stato è, con lui, il principale responsabile del disastro. A cominciare dal contrasto tra sistema elettorale e sistema istituzionale che impedisce di votare subito.

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