Presidenziali Usa. Vincitori e vinti di un doppio referendum

by Guido Moltedo, IL MANIFESTO | 10 Novembre 2016 8:56

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Perché Trump? Cause e conseguenze dell’elezione di The Donald richiederanno molto tempo e molta attenzione per essere davvero riconosciute, interpretate e valutate in tutta la loro dirompente portata. A caldo, prevalgono termini come shock, stupore, trauma, rabbia, parole cariche di emotività, le uniche in grado di dar conto, il giorno dopo, della vittoria del magnate di Manhattan.

Forse più semplice tentare di capire, nell’immediato, le ragioni della sconfitta di Hillary Rodham Clinton, se non altro perché già da mesi, ormai, fin dalle iniziali primarie democratiche, si discuteva delle serie e numerose vulnerabilità della sua candidatura.
È che non è andata in scena, martedì, solo una competizione tra due candidati ma una sorta di due referendum paralleli e convergenti, una suggestione che per certi versi si riflette nel pareggio tra i due nel voto popolare (con una prevalenza di Clinton).

Un referendum sulla candidata democratica, che era innanzitutto alla prova del «suo» stesso elettorato, parti consistenti del quale riluttanti se non proprio critiche nei suoi confronti, compreso lo stesso elettorato femminile, soprattutto le giovani elettrici (che, infatti, l’ha votato in misura minore rispetto al voto dato a Barack Obama nonostante la debordante misoginia del suo avversario). E oggi appare ancora più evidente la saggezza, di cui pure si è discusso più volte quanto inutilmente, di una candidatura alternativa, quella di Bernie Sanders, o perfino quella del vice-presidente Joe Biden, entrambi, in modo diverso, in grado di parlare alla classe operaia bianca, il blocco elettorale decisivo nel successo di Trump.

Un referendum su The Donald, un personaggio sul quale è stato scritto di tutto, da ogni angolazione, per arrivare a non sciogliere davvero l’enigma del suo successo, non solo nel perimetro del suo elettorato, ma ben oltre, anche in territori elettorali che, sulla carta, dovevano essergli preclusi. Come si è detto, ci vorrà del tempo per capire i motivi più profondi della sua elezione. Si dovranno studiare i voti reali, i flussi, la demografia elettorale. Ma intanto si può dire che

Hillary ha perso il suo referendum, The Donald l’ha vinto.

Di sicuro, non bastano espressioni generiche per descrivere quanto avvenuto, come «America profonda», «l’altra America», «pancia», «viscere», «antipolitica». È un lessico che allude a motivazioni prevalentemente emozionali, che non riconoscono ragioni di merito, benché discutibili, in chi ha scelto Trump e/o ha voltato le spalle a Clinton. È la scorciatoia del complesso mediatico-politico che si sente spiazzato dal voto e che non riesce a prendere in considerazione le ragioni di un elettorato che, non a caso, Clinton ha definito «deplorevole». Una connotazione che probabilmente ha contribuito in modo rilevante alla sua sconfitta, perché è suonata come la conferma di un atteggiamento altezzoso e giudicante, di chi si sente superiore al popolino ignorante. «Deplorable» è diventato lo slogan sulle t-shirt e sui gadget dei fan più eccitati e attivi del candidato-miliardario, il Leit motiv dell’ultimo scorcio della campagna di Trump.

Già, una parte dell’elettorato che ha scelto Trump l’ha fatto perché si è sentito non solo trascurato e abbandonato dalla casta di Washington, ma anche da essa disprezzato e perfino demonizzato.

I risultati dei due «referendum» andranno dunque analizzati per bene, ciascuno nella propria specificità e nel loro intreccio. Anche per dar modo al Partito democratico di non finire nel tritacarne di una sconfitta storica. E di preparare la sua rifondazione, se c’è ancora una base perché sia possibile.

Questo dubbio nasce dal fatto che la sconfitta di Hillary è intimamente collegata con lo snaturamento del suo partito. Barack Obama – ed è questo il massimo limite del suo doppio mandato – non si è occupato del partito, della sua organizzazione, della sua capacità di parlare alle nuove generazioni, non ha neppure tentato, come aveva promesso di fare, di innestargli, per rinnovarlo, le forze del movement che aveva spinto la sua candidatura presidenziale nel 2008. Il Partito democratico è rimasto così, anche dopo la sconfitta allora di Hillary, un’organizzazione sottoposta al rigido controllo dell’apparato clintoniano. Che si è rivelato un tappo fatale. Ha bloccato il ricambio generazionale, ha fermato ogni ed eventuale aspirante alla Casa Bianca che non fosse la logorata Hillary Clinton, non rassegnata alla sconfitta del 2008 e determinata alla rivincita. Come può, dunque, una forza politica che ha legato il suo destino a quello di una candidata presidenziale due volte sconfitta ritrovare le ragioni forti per una sua ripresa?

È anche vero che il partito rivale, il Grand Old Party, non è messo meglio. La vittoria di Trump, che pure ha avuto un effetto di trascinamento nella riconquista della maggioranza repubblicana nei due rami del Congresso, non deve far dimenticare il duro scontro tra l’establishment e i big del partito e Donald Trump. In effetti, il candidato presidenziale si è trovato a combattere su due fronti, contro Hillary e contro il grosso del suo stesso partito.
Certo, la vittoria rende più facile la riconciliazione. Ma, visti i precedenti, forse è più facile immaginare che il conflitto tra Trump e i vari Cruz, Rubio, McCaine, Ryan troverà nuove ragioni per essere riattizzato, specie se il nuovo presidente dovesse conservare lo stesso piglio che l’ha contraddistinto come candidato. Il piglio di chi si rivolge direttamente alla «gente» saltando le mediazioni politiche consuete, anzi fregandosene con compiacimento e con ostentato disprezzo per la casta politica.

Nei prossimi giorni, quando ci sarà il passaggio nella terra di nessuno tra la presidenza uscente e quella entrante, si capirà che tipo di commander in chief entra in scena dopo Obama. La transition è una fase delicata e complicata, sono un paio di mesi e più che consentono di studiare lo stile del nuovo inquilino della Casa Bianca. A gennaio, al momento dell’investitura ufficiale, si saprà già se la più avvelenata campagna elettorale della storia presidenziale americana continuerà, in altre forme, sotto la nuova amministrazione. Il tono conciliatorio delle prime dichiarazioni di Trump non inganni. The Donald non ha una varietà di registri. Anche da presidente continuerà a stupire. Con la differenza che da ora in poi è nelle sue mani anche il codice dell’arsenale nucleare americano.

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