I balcani americani

I balcani americani

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Quella del «nuovo» Trump, del Trump presidential e non più candidato, è una maschera che sta molto stretta a The Donald. Infatti, tempo un paio di giorni, se l’è già tolta. Eccolo che riprende a lanciare tweet rabbiosi. Le proteste contro la sua elezione continuano, dappertutto in America, e lui reagisce come fa lui, con le contumelie, definendo chi scende in piazza «manifestanti di professione, incitati dai media». Lo sceriffo Rudy Giuliani si associa al suo boss chiamandoli «piagnucoloni viziati». Però, attenzione. Non è solo il day after di uno sconquasso, il trauma a cui segue la protesta, a cui, a sua volta, segue il solito copione visto nella campagna elettorale del miliardario fascistoide.

azione in America è molto più di questo e preannuncia tempi molto duri. Di conflitto. Persino in prospettiva di guerra civile. Non solo metaforica in un paese dove girano liberamente centinaia di milioni di armi da fuoco, più numerose degli abitanti, oltre 350 milioni. Non una guerra tra le due Americhe. La frattura non è tra due parti, come si sente dire da americanisti improvvisati, tra le élite urbane e la «pancia». Ma tra le tante Americhe – culturali, sociali, razziali, religiose – che compongono il mosaico statunitense e che questa nuova presidenza rischia di far saltare per aria in mille pezzi, avendo preso a calci il tavolo su cui è disposto il puzzle. Una balcanizzazione dell’America. O, un tempo, si sarebbe detto libanizzazione. È vero, l’incontro all’indomani del voto alla Casa Bianca è stato cordiale e civile. Ma quanti nei siti di destra, non solo in America, hanno ironizzato sul padrone bianco che si riprende la casa abusivamente abitata dal nero? È una scena che, nella civiltà dei modi, infatti non cancella la feroce campagna d’odio lanciata e finanziata da Trump che ha preceduto la sua discesa in campo.

Trump è il capofila dei birther, il movimento razzista che contestava l’elezione di Obama, sostenendo che la sua nascita a Honolulu non era documentata e dunque egli era privo del requisito indispensabile per essere presidente degli Usa.

Ma non è solo il vecchio e vitale razzismo in bianco e nero. Il nuovo presidente americano, che da imprenditore si era già distinto per le sue pratiche discriminatorie verso i neri, ce l’ha parimenti con i latinos, con gli islamici, con gli asiatici, ed è notoriamente misogino. Lui non si sa, ma tutti i suoi associati, molti dei quali destinati ad avere ruoli importanti nel suo governo, sono dichiaratamente omofobi. Sono antiabortisti. Antiambientalisti. Anti-immigrati. E rappresentano un elettorato che in larga misura si rispecchia in queste posizioni. È definito bonariamente questo elettorato maggioranza silenziosa. Eppure non si ricorda, a dire il vero, quando lo sia stata, silenziosa, almeno da Reagan in poi. Oggi è anche maggioranza politica. È una maggioranza che ha nel suo stesso dna l’eliminazione di chi non ne è parte. La maggioranza silenziosa che ha vinto le elezioni è in realtà una minoranza che vuole sottomettere tutte altre minoranze. Nei giorni scorsi due ragazze a San Diego e San José sono state aggredite perché indossavano il velo islamico. È accaduto in California non nell’America profonda che non si sa dove sia. In America la comunità islamica vive molto più integrata che in Europa. Prima che arrivasse Trump.
Per la prima volta la silent majority trova in lui un presidente che le dà piena rappresentanza.

Il rischio di una deflagrazione dell’America è in questa terribile novità, forse anche prevista, ma, ora che si manifesta in tutta la sua magnitudine, è estremamente preoccupante.
Gli Stati Uniti sono dai loro albori terra di immigrati, e hanno continuato a esserlo. È ancora l’approdo numero uno dell’immigrazione e il suo sviluppo è tuttora intimamente legato al volano dell’immigrazione. Non solo braccia ma menti, spesso le menti migliori, da ogni parte del mondo. La conflittualità ha accompagnato questo percorso, ma quando le tendenze all’inclusione e alla coesione hanno avuto la meglio, il melting pot che ne è derivato ha consentito di dispiegare le migliori energie. Barack Obama ha fatto sempre appello a questa America, fin dal suo primo discorso alla convention di Boston, nel 2004. Non un appello buonista ma realista. Ancora più sensato in tempi di crisi, dove è più facile che la demagogia soffi sul fuoco delle diversità per ridurle a rivalità tra comunità. Il melting pot è tale se ha una base condivisa su cui poggiare.

Questo sforzo unitario è stato duramente contrastato dalla destra e anche, tra i suoi sostenitori, non è stato compreso, specie quando la sequenza di crimini della polizia contro i neri si è intensificata. Gli si è perfino attribuita la responsabilità di non aver fatto abbastanza per i suoi fratelli, lui primo presidente nero, quando era evidente il contrario: la Casa bianca e i ghetti erano nell’occhio del ciclone di un’ondata razzista cavalcata dalla destra. Obama, fin dal suo esordio, è stato il presidente di tutti gli americani, non di una parte di essi, fossero anche i suoi fratelli ancora discriminati, come avrebbero voluto i razzisti, per connotarlo, ma anche un certi paternalismo progressista.

È stato il suo il modo migliore, più alto, per rappresentarli, quello di essere sempre il presidente di tutti. Con l’intento morale di portata strategica di tener unite e tra loro cooperanti le diverse componenti della nazione, unica condizione di crescita e di sviluppo per tutti, anche per chi vive discriminato nei ghetti.

Il rovesciamento di questa visione porta Trump a occupare la sua poltrona. Forte di una maggioranza al senato e alla camera. Le manifestazioni in corso sono una prima sacrosanta reazione a questo cambiamento dal carattere epocale. Difficile pensare, si dovessero anche placare, che il conflitto si fermerà. Più probabile che s’intensifichi.

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