by Eleonora Martini, il manifesto | 11 Novembre 2016 9:15
Chi sono i più accaniti avversari dei vincoli imposti a tutela della natura nelle 871 aree protette italiane, nei 24 parchi nazionali, nelle 29 aree marine e nei 152 parchi regionali nati allo scopo di salvaguardare uno dei patrimoni di biodiversità più ricchi d’Europa? Chi da anni tenta di attenuare i divieti imposti da Bruxelles sui circa 2.300 Siti di importanza comunitaria (Sic), le cosiddette Zone speciali di conservazione (Zsc) e Zone di protezione speciale (Zps), che sussistono nel nostro Paese?
A rileggere la cronaca degli ultimi tempi[1], nella maggior parte dei casi l’attacco più duro alle aree protette è stato sferrato da esponenti delle comunità locali: pastori, agricoltori, cavatori, costruttori, cacciatori, gestori di impianti, operatori turistici… Questi portatori di interessi particolari avranno d’ora in poi maggiore potere nella gestione e nell’indirizzo dei parchi, sottraendo controllo allo Stato.
A stabilirlo è il ddl approvato ieri dal Senato, con 154 sì, 47 no (M5S e Sinistra Italiana) e sei astensioni, che riordina la legge quadro 394 del 1991, almeno stando alla denuncia sollevata da quasi tutte le associazioni ambientaliste italiane: dal Cai al Wwf, Greenpeace, Legambiente, Lipu, Fai, Lav, Italia Nostra, ecc.
«Una legge super consociativa che Forza Italia e Pd tentano di far passare dal 2008», ricorda il direttore generale della Lipu, Danilo Selvaggi. E che ora passerà all’analisi della Camera per la seconda lettura. Nel ddl di 26 articoli, che tra l’altro istituisce due nuovi Parchi nazionali, del Matese e di Portofino, e il Parco interregionale del Delta del Po (che la legge vigente individua già come Parco nazionale), gli ambientalisti riconoscono una serie di «motivi che ne fanno una riforma sbagliata, incapace di dare soluzioni ai problemi delle Aree Protette, ma addirittura tale da sovrapporre pericolosamente i portatori d’interesse con i soggetti preposti alla tutela».
Nei Consigli direttivi dei parchi, infatti, secondo il ddl, «viene rafforzata la componente locale e diminuita la rappresentanza nazionale», spiega Selvaggi. Inoltre, la «governance delle Aree marine Protette non prevede alcuna partecipazione delle competenze statali», denunciano le associazioni il cui parere dettagliato è stato inviato nei mesi scorsi ad ogni senatore. Inutilmente. Non solo: «Direttori e presidenti dei parchi, che non dovranno avere alcuna competenza specifica in tema di conservazione della natura – continua Selvaggi – non saranno più scelti dal ministero dell’Ambiente, che pure li nomina per decreto, ma dai Consigli direttivi».
Altra grande questione: la «gestione faunistica» introdotta con il ddl. Dice la capogruppo del Pd in commissione Ecomafie, Laura Puppato: «Abbiamo vietato la caccia selettiva dentro i parchi, prima prevista come eccezione ma praticata». Secondo le associazioni invece, «se da un lato viene ribadito il divieto di caccia già esistente, dall’altro si dissimula l’attività venatoria sotto la forma del controllo faunistico». «Una questione molto seria – spiega Selvaggi – perché se la sovrappopolazione dei cinghiali, per esempio, è uno dei problemi dell’agricoltura, la soluzione non può essere affidata ai cacciatori che hanno tutto l’interesse di vedere crescere il business della selvaggina». E il timore, naturalmente, è prima o poi si possa riaprire di nuovo la caccia al lupo.
Terzo punto, che il direttore della Lipu definisce «la caramellina avvelenata», è il sistema delle royalties. Secondo Puppato, «le attività già esistenti sul territorio del parco (oleodotti, elettrodotti, cave, impianti sciistici, ecc., ndr ) dovranno versare royalties all’ente, anche per contribuire alla mitigazione dell’impatto». Per gli ambientalisti invece è un «dazio» che non dovrebbe essere versato direttamente all’ente ma ad un fondo gestito dal ministero, per evitare «le pressioni dirette».
«Noi teniamo moltissimo alle comunità – puntualizza infine Selvaggi – ma la missione dello Stato è altrettanto importante. Questa legge è una sorta di smantellamento costituzionale, che va peraltro nella direzione opposta alla riforma che Renzi vorrebbe per riportare sotto il controllo nazionale alcune competenze delle Regioni. Se allo Stato togliamo il potere di conservare la natura, alla fine non resterà nulla, né della natura né dello Stato».
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