“Ricontiamo i voti”. La sfida dei democratici Usa per ribaltare il risultato delle elezioni
RECOUNT! Vogliamo la ri-conta dei voti. Dopo una campagna elettorale in cui era stata la destra a denunciare preventivamente brogli in favore dei democratici («it’s rigged», è truccato, disse ripetutamente Donald Trump), l’ultima sorpresa è un rovesciamento delle parti. Si mobilitano i democratici, soprattutto le organizzazioni della sinistra di base, per chiedere un controllo a due settimane dal risultato. La ragione? I margini di vittoria di Trump, ora che si è concluso il lentissimo spoglio delle schede inviate per corrispondenza, sono così microscopici che basta la minima irregolarità (o semplici errori) a determinare un clamoroso capovolgimento. Ecco i numeri in tre Stati-chiave, decisivi per assegnare la Casa Bianca a Trump. Nel Michigan il vantaggio di Trump è sceso a sole 10.704 schede, lo 0,2% dei votanti. Nel Wisconsin lui ha solo 22.525 voti in più, lo 0,8%. In Pennsylvania ne ha solo 70.010 in più,
La vera spinta politica a fare ricorso e chiedere la ri-conta manuale viene da quel totale di 2 milioni di voti popolari in più che Hillary ha raccolto rispetto a Trump. Quelli sono in massima parte voti ottenuti in California e altre zone solidamente democratiche dove comunque la totalità dei “grandi elettori” è andata a Hillary; quei milioni in più non servono perché vincere in California col 50,1% o col 62% è la stessa cosa al fine del bottino di delegati: sono 55 i “grandi elettori” espressi dalla California, e tali restano a prescindere dal margine di maggioranza. Quei 2 milioni sono comunque uno scarto enorme, un record storico, ancorché irrilevante ai fini del “collegio elettorale”, la controversa legge che regola l’elezione presidenziale. Però a questo punto cresce la voglia di andare a verificare se negli Stati-chiave come Wisconsin, Michigan, Pennsylvania, il margine ridottissimo di Trump sia stato davvero regolare. Il problema è che Hillary e la dirigenza democratica hanno già concesso la vittoria a Trump e non sembrano affatto interessati ad aprire un contenzioso a base di ricorsi a scoppio ritardato. Le varie organizzazioni di base che invocano questo riconteggio, non possono chiederlo: deve farlo un candidato. Ed ecco che spunta Jill Stein, la candidata verde, lei sì è pronta ad avviare i ricorsi. Non per se stessa, ma contro Trump. A questo punto si schierano a suo sostegno MoveOn e Democracy For America, che in poche ore ieri avevano già raccolto 80.000 firme. Le stesse organizzazioni stanno anche raccogliendo fondi per la Stein, poiché la presentazione dei ricorsi va fatta Stato per Stato e comporta spese legali che la candidata verde non può coprire da sola. Sia Democracy For America che MoveOn non sono affatto legate al partito degli ambientalisti che candidò la Stein; sono due organizzazioni della sinistra democratica, avevano appoggiato prima Bernie Sanders (alle primarie) poi Hillary l’8 novembre. La loro adesione all’iniziativa di Jill Stein è puramente strumentale. MoveOn in particolare nelle email diffuse ai militanti lo lascia capire, non si fa troppe illusioni sul fatto che Trump possa essere
scalzato in extremis, però vuole almeno che sia posto in modo stringente il tema del collegio elettorale, un sistema che distorce la volontà popolare. Ironia della sorte: se Jill Stein avesse evitato di presentarsi, disperdendo voti giovanili “di protesta” sulla sua candidatura ambientalista, e raccogliendo l’1% su scala nazionale, forse oggi Hillary sarebbe presidente. E sarebbe Trump a studiare le opzioni di ricorso, come aveva minacciato di fare.
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