by Roberto Ciccarelli, il manifesto | 13 Novembre 2016 9:06
È nata in Belgio l’alternativa a Foodora, Deliveroo o UberEats, le multinazionali statunitensi ed europee che usano i ciclofattorini per le consegne a domicilio. Tutto è iniziato il 26 luglio scorso con il fallimento del gigante Take Eat Easy, l’analogo belga di Foodora o Deliveroo. Pochi giorni dopo, ad agosto, una parte dei bikers hanno deciso di organizzarsi. Alcuni di loro, 434, facevano già parte della «società mutualistica per artisti» Smart[1], un’impresa di economia sociale composta da diverse entità con personalità giuridiche distinte e una fondazione che le coordina e ne garantisce il fine senza scopo di lucro. Da marzo a oggi sono cresciuti e, insieme ad altri 1.300 che svolgono lo stesso lavoro, parteciperanno alla più grande cooperativa europea composta da lavoratori indipendenti.
A gennaio, infatti, Smart ha deciso di trasformarsi in cooperativa e diventerà uno dei casi di riferimento per il dibattito mondiale sulla nuova cooperazione. I «livreurs» – così vengono chiamati in Belgio i ciclo-fattorini – saranno protagonisti della prima innovazione su base solidale e mutualistica nel mondo della «gig economy», l’economia dei «lavoretti» che in Italia è diventata nota dopo la vertenza dei bikers torinesi della Foodora[2].
Take Eat Easy era una start up di consegne a domicilio che operava in venti città belghe e con la sua piattaforma metteva in contatto 3200 ristoranti. I bikers impiegati circa 4500. In un solo anno i clienti sono aumentati da 30 mila a 350 mila. Cifre vertiginose per un paese come il Belgio, ma non sufficienti per un’economia altamente finanziarizzata come quella della «gig economy». Adrien e Chloé Roose, co-fondatori di Take Eat Easy, hanno spiegato le ragioni del fallimento. La start-up si è sviluppata troppo lentamente e non è riuscita a trovare nuovi investitori. Se non ci fosse stata Smart, i 434 «livreurs» non avrebbero ricevuto i compensi, né versamenti degli oneri sociali per una cifra pari a 340 mila euro, come invece è capitato ai loro colleghi. Smart ha versato i soldi ai suoi impiegati senza poterli riscuotere dal committente Take Eat Easy. Forte di 60 mila soci che versano il 6,5% dei guadagni in un fondo di garanzia in cambio di servizi, Smart è riuscita a sostenere il peso delle conseguenze del fallimento e ha allargato il numero dei soci. Nel 2015 erano infatti solo 89 i «livreurs» ad avere aderito all’iniziativa. Oggi le cose sembrano funzionare: sono 50 mila le ore di lavoro prestate dai 1300 fattorini.
Smart aveva già siglato con Take Eat Easy, e con Deliveroo, un protocollo d’intesa che rimedia al principale problema del ciclo-lavoro a domicilio: il tempo di lavoro tra una corsa e l’altra non è remunerata. Il protocollo ha assicurato un salario pari al minimo legale mensile in base alle ore lavorate, il rimborso delle spese di manutenzione per la bicicletta o le spese telefoniche e un’assicurazione contro gli incidenti. Il tutto nel quadro di un contratto di lavoro di cui Smart si è assunta le responsabilità del datore di lavoro.
«Oggi – afferma Sergio Giorgi, project officer di Smart – i livreurs sono impiegati per il tempo che lavorano per Smart, quando non sono in bici svolgono altre attività che possono anche condurre nell’ambito di Smart, dipende dal loro profilo professionale». «Considerata la natura dei beni dell’azienda in fallimento – un database dei livreurs, un software che fa da interfaccia tra loro, i ristoranti e i consumatori – è probabile che i 340 mila euro versati da Smart saranno iscritti tra le perdite e coperti con le sue riserve».
A questo punto viene da chiedersi che cosa guadagnerà la cooperativa da questa operazione. «Insieme agli altri soci contribuiranno alla costruzione dei servizi che permettono di assicurargli la continuità nel lavoro e la protezione sociale – risponde Giorgi – Quando hanno fatto ricorso a Smart i livreurs sono, di fatto, diventati impiegati. In quanto datore di lavoro, Smart ha fatto valere le condizioni minime di lavoro: la durata minima dell’impiego, il sostegno delle spese nei confronti del cliente».
Nelle intenzioni dei promotori dell’operazione c’è il desiderio di «tutelare i lavoratori su base mutualistica dai rischi derivanti della discontinuità del lavoro indipendente, siano essi freelance o abbiano uno statuto “patchwork” come quello del lavoro nella gig economy. È un’alternativa al modello attuale dove il singolo «auto-imprenditore» vende un servizio all’azienda proprietaria della piattaforma e vede diminuire il livello di protezione e di sicurezza sociale». Nell’esperimento inauguratocon Smart, i «livreurs» si sono sottratti all’individualismo e hanno iniziato a organizzare direttamente il loro lavoro in bicicletta senza rispondere a un datore di lavoro che gestisce i tempi del cottimo digitale attraverso un telefono.
La Californian Ideology e il sogno dell’automazione totale nascondono un segreto. E cioè che il lavoro non è finito: al contrario, è sempre di più. Solo che è talmente invisibile che a nessuno viene in mente che vada pagato.A cura di Roberto Ciccarelli
Fare l’autista per Uber non è un hobby, è un lavoro[3]
***Non solo smartphone. Dietro le Start Up c’è la forza lavoro[4]
***Ranking e lotta di classe[5]
***Cooperazione 2.0. Le alternative nella sharing economy[6]
***Foodora, Deliveroo, Uber e gli altri: il conflitto sociale nel lavoro digitale[7]
*** Il Co.Co.Co galeotto e il caso Foodora. Ancora guai dal Jobs Act[8]
*** La sconveniente verità per le start-up: il lavoro si paga[9]
*** Poco al lavoro, molto al mercato: la sharing economy all’italiana[10]
*** Sharing economy Act, una proposta di legge in chiaroscuro[11]
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