Arrestato l’editore di Cumhuriyet, da venerdì 441 i membri dell’Hdp incarcerati

by Chiara Cruciati, il manifesto | 12 Novembre 2016 9:06

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Non passa giorno senza che non venga aggiornata la lista degli oppositori del presidente-sultano Erdogan trascinati in prigione. Una triste processione di giornalisti, parlamentari, scrittori, attivisti, una marcia silenziosa quasi a commemorare la democrazia, violentata da un regime fascistoide che non tollera ostacoli.

Per quanto possibile, però, gli arresti vanno documentati tutti sperando che non restino impuniti. Ieri, dopo la detenzione di nove dipendenti, tra cui il direttore Sabuncu, è toccato all’editore di Cumhuriyet. Akin Atalay, presidente della Fondazione, è stato arrestato all’aereoporto di Istanbul mentre rientrava dalla Germania.

Affoga, così, una delle poche voci critiche rimaste a galla nel mare mediatico asservito al governo: la stampa ancora attiva è quasi esclusivamente filo-governativa, megafono del potere politico e economico. Gli altri media, quasi 200, sono stati tutti chiusi mentre aumenta a dismisura il numero di giornalisti dietro le sbarre, 142 secondo la Pattaforma per il giornalismo indipendente.

Atalay è accusato di non meglio precisate «attività terroristiche», ma è probabile che il reato che gli sarà imputato sarà identico a quello dei suoi sottoposti e di molti dei 30mila detenuti dopo il tentato golpe del 15 luglio: azioni tese a favorire il movimento Hizmet di Gulen e il Pkk, entrambi considerati organizzazioni terroristiche e nella narrativa del governo soggetti interscambiabili.

Esattamente le stesse ragioni che giovedì hanno portato all’incriminazione di nove dipendenti del giornale kurdo Ozgur Gundem, chiuso ad agosto ma ancora perseguitato dalle autorità: il procuratore ha chiesto l’ergastolo per i nove giornalisti e collaboratori (quattro sono in prigione da tre mesi e cinque a piede libero), tra cui la nota scrittrice turca Asli Erdogan, per appartenenza a organizzazione terroristica, propaganda terroristica e tentativo di rompere l’unità nazionale.

Basta fare un balzo e dalla stampa si passa in parlamento. Non si hanno notizie dei 12 deputati del Partito Democratico dei Popoli (Hdp) arrestati una settimana fa. Restano in isolamento in due diversi carceri di massima sicurezza i due co-presidenti Demirtas e Yuksekdag, nonostante le decine di proteste che semplici cittadini e organizzazioni per i diritti umani tengono in tutta Europa (oggi l’Ufficio di Informazione del Kurdistan in Italia organizza sit-in in molte città italiane).

Il silenzio pare già calato su di loro e la repressione prosegue indisturbata: ieri altri 5 funzionari del partito sono stati arrestati a Diyarbakir. Tra loro il consigliere politico della Yuksekdag.

I numeri sono spaventosi: secondo quanto riportato dal portavoce del partito, Ayhan Bilgen, 441 membri dell’Hdp sono stati arrestati dal 4 novembre, giorno in cui sono stati portati via i due co-presidenti, e oltre 6mila dal 15 luglio, dopo il tentato golpe militare. «Un modo post-moderno di distruggere un partito politico», lo definisce Bilgen. Facendo piazza pulita, terrorizzando i sostenitori, creando un gap insormontabile tra i vertici e la base.

Ad operare è una macchina di estrema precisione, che mette insieme potere politico (non solo il partito di governo Akp, ma anche le opposizioni morbide di Chp e Mhp), giudiziario (grazie alle purghe che hanno fatto sparire giudici e procuratori di diversa visione politica), economico e mediatico. Chi oggi racconta il paese è la stampa filo-Akp, chi ne gestisce gli affari più consistenti le imprese con stretti legami con la famiglia Erdogan e il suo establishment.

E mentre deputati democraticamente eletti restano in prigione nel silenzio del paese e dell’Europa, Erdogan prosegue spedito con la riforma presidenziale: ieri il premier Yildirim ha annunciato l’imminente revisione costituzionale dopo aver incassato il sostegno dei nazionalisti dell’Mhp.

Il cerchio di consenso politico intorno al governo si stringe, il terrore delle epurazioni compatta il fronte parlamentare intorno all’esecutivo. Che ora guarda al futuro con ancora maggiore arroganza: l’elezione di Trump alla presidenza degli Stati Uniti garantirà un’alleanza ancora più solida e omertosa.

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