by Tonino Perna, il manifesto | 26 Novembre 2016 11:24
È nelle fasi di fallimento della globalizzazione, negli anni precedenti la prima guerra mondiale, come negli anni ’30, che si affaccia l’autarchia e il nazionalsocialismo
Al di là di quello che realmente farà il nuovo presidente statunitense, è indubbio che gli slogan della sua campagna elettorale hanno trovato ascolto anche fuori dai confini del nord America, in particolare la sua battaglia per difendere i prodotti made in Usa. Ritorna in auge la politica protezionistica, e non è una novità. Sappiamo bene che nel corso della storia il capitalismo ha fatto registrare ondate di globalizzazione dei mercati a cui sono seguite delle contromisure, con innalzamento delle barriere doganali e contingentamento delle importazioni. Anche sul piano teorico, la scienza economica ha visto imporsi, agli inizi del XIX secolo, la teoria dei «vantaggi comparati» di David Ricardo.
Una teoria su cui tutt’ora si basa la vulgata dei vantaggi del “libero scambio” a livello internazionale, a cui trent’anni dopo si è opposta la strategia protezionistica teorizzata da Friedrich List, il promotore di una via tedesca allo sviluppo basata su una articolata barriera doganale che proteggesse i primi germogli dell’industria tedesca nella seconda metà dell’Ottocento.
Come ha messo in evidenza Gianni Toniolo in un acuto editoriale (sul Sole 24 ore), l’ondata di globalizzazione della seconda metà dell’Ottocento fu contestata nelle piazze e nei Parlamenti ben prima della sua violenta fine nel 1914. Ancora più dura e drastica fu la risposta politica alla globalizzazione negli anni Trenta, creando le basi dell’intervento forte e deciso dello Stato nell’economia, sia nella versione dell’autarchia fascista e del nazionalsocialismo in Germania , sia del New Deal nordamericano.
Il fallimento delle ondate di globalizzazione dei mercati dimostrano che il mercato “autoregolato” non può durare a lungo senza distruggere la società, come è stato ampiamente documentato da Karl Polanyi. Purtroppo, la risposta sociale e politica agli effetti perversi della globalizzazione ha avuto ed ha ancora oggi una matrice prevalente di Destra. Come molti analisti hanno evidenziato in questi giorni, la vittoria di Trump, ma anche il successo crescente delle destre in Europa, si basa in gran parte su ricette “protezionistiche” che rifiutano il cosiddetto ”libero mercato internazionale” del lavoro e delle merci.
C’è una coerenza e una estrema chiarezza nella proposta politica della destra occidentale: difendere i propri prodotti dalla concorrenza sleale cinese, impedire alle multinazionali con base nei paesi occidentali di andare a produrre all’estero a costi decisamente più bassi per poi rivendere in patria ai prezzi correnti.
Allo stesso modo, bloccare i flussi migratori in quanto il cosiddetto “libero mercato internazionale” del lavoro comporta, soprattutto in una fase di stagnazione, una concorrenza crescente con la forza lavoro locale. Anche negli Usa o in Germania dove la crescita economica negli ultimi dieci anni si è accompagnata alla dequalificazione del lavoro ed una riduzione del salario medio.
In sintesi, la proposta della destra, che si può definire come Neoprotezionismo, perché è un misto di protezionismo verso l’esterno e liberazione/privatizzazione dello Stato all’interno, è molto chiara e popolare e il Neoliberismo “tal quale” finisce per essere sostenuto dalle forze politiche un tempo appartenenti alla sinistra storica (Hollande, Renzi, Obama, e C.).
Paradossalmente la nuova sinistra, o la sola sinistra che è rimasta a criticare il turbocapitalismo neoliberista non è riuscita ad andare oltre quello che i movimenti sociali hanno espresso nei primi meeting internazionali di Porto Alegre.
Il movimento No Global (poi ribattezzato New Global) contestava e denunciava i danni sociali ed ambientali di questa forma di globalizzazione capitalistica, e ne proponeva un’altra, ma in termini generici e volontaristici. In altri termini, né dai movimenti di contestazione né dalle forze politiche della sinistra radicale è scaturita una proposta chiara e comprensibile all’operaio, al lavoratore precario, al disoccupato, che si sentono minacciati, dalle merci e dalla forza lavoro che vengono da lontano. La critica anche aspra del capitalismo se non accompagnata da contromisure credibili, non rappresenta una proposta politica. Né è stato sufficiente il mutamento culturale che ha portato negli ultimi decenni ad una rivalutazione del “prodotto locale”, del consumo a km zero, dei Gruppi di Acquisto Solidale, ecc. Un risposta alla globalizzazione capitalistica dal basso, certamente importante, che però non riesce ad intaccare i grandi numeri dell’economia.
Da molti anni la sinistra italiana, quella rimasta tale, ha proposto un reddito minimo di cittadinanza come misura di protezione sociale, proposta oggi fatta propria dal M5S. Ma, sul piano della concorrenza sleale che per esempio il governo cinese attua da oltre un ventennio, manipolando il tasso di cambio dello yuan, non c’è mai stata una chiara presa di posizione. Come è ormai noto, c’è un accordo tacito tra imprese multinazionali e governo cinese, vietnamita, ecc. di mantenere un tasso di cambio «politicamente» manovrato che conviene ad entrambi i soggetti.
Per spiegarci meglio: un operaio cinese che guadagna 250 euro al mese ha un potere d’acquisto pari a circa 1200 euro in Italia, l’impresa multinazionale che lo ha assunto ha un risparmio sul costo del lavoro per unità prodotta nella Ue di circa il 70%, il governo cinese ha creato in questo modo milioni di nuovi posti di lavoro ed ha fatto entrare nel paese valuta pregiata con cui oggi compra imprese in Occidente e terre in Africa, e non solo.
Tutti questi attori ci guadagnano, sia pure in misura diversa, ma il resto del mondo? Come si rompe questo meccanismo ? Non certo come propone Trump con i dazi sui prodotti cinesi al 45% , perché oggi la Cina è in grado di colpire al cuore il sistema finanziario statunitense (a partire dai titoli del debito pubblico), ma anche perché queste misure abbasserebbero il tenore di vita della maggioranza dei lavoratori nordamericani. Se non c’è stata più inflazione a due cifre in Europa e negli Usa, dagli anni ’90, è proprio grazie ai bassi prezzi dei prodotti provenienti dall’industria asiatica.
Ma, se non vogliamo consegnare alla destra il futuro della Ue dobbiamo rispondere al neoliberismo con proposte credibili e praticabili, dobbiamo trovare necessariamente un’altra via che non sia quella biecamente neoprotezionistica e nazionalsocialista. E’ sul piano internazionale, delle contraddizioni del nostro tempo, che dobbiamo costruire una proposta chiara e praticabile.
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