Il doveroso altolà dell’Europa alla Turchia di Erdogan

Il doveroso altolà dell’Europa alla Turchia di Erdogan

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Finalmente l’Unione Europea batte un colpo sullo sconcio della sempre più approssimativa e pericolante democrazia turca. Attraverso un voto quasi unanime del Parlamento riunito a Strasburgo (478 favorevoli, 37 contrari, 107 astenuti) ha chiesto alla Commissione e agli Stati membri di congelare temporaneamente le trattative di adesione della Turchia all’Unione. Si tratta del primo passo ufficiale concreto da parte di un’istituzione della Ue da quando è cominciata (e non si è mai interrotta) l’infinita serie di purghe messe in atto dalle autorità turche “in risposta” al fallito e mai chiarito golpe del 15 luglio scorso.
Il presidente Erdogan ha tuonato sulla “non validità” del voto dell’Europarlamento – non si capisce con quale autorità e su che base sia stato emesso il giudizio – mentre le azioni di intimidazione e vera e propria repressione da parte del suo regime nei confronti di ogni forma di critica e opposizione continua senza sosta. Alle decine di migliaia di militari, magistrati, docenti universitari e professori, funzionari pubblici, giornalisti, imam, e persino imprenditori arrestati, incriminati, licenziati, sospesi dal servizio si sono aggiunti la chiusura di giornali, radio, tv e siti internet, e la revoca dell’immunità parlamentare per oltre un centinaio di rappresentanti, in gran parte appartenenti al partito curdo (Hdp).
In realtà, nel corso degli ultimi anni, dall’involuzione autoritaria che il regime ha conosciuto a partire dallo sgombero violento e ingiustificato di Gezi Park nel giugno del 2013, la rotta di allontanamento dall’Europa intrapresa scientemente da Erdogan non ha mai conosciuto vacillamenti. Da quando poi il “Reis” (dal titolo del bel libro che Marta Ottaviani dedica al presidente turco) è diventato presidente, la direzione è apparsa semmai sempre più segnata.
Lo stesso accordo stretto con l’Unione per riprendersi in cambio di denaro i profughi illegalmente giunti in Grecia e nei Balcani attraverso la Turchia è stato un passo che ha sancito il cambiamento di prospettiva (peraltro bilateralmente accettato) sulla questione dell’adesione turca all’Unione. È chiaro che un Paese seriamente candidato a diventare un membro a pieno titolo della Ue non avrebbe mai accettato un accordo in sé umiliante: «Io ti pago e tu fai il lavoro sporco per me». Allo stesso modo, l’Unione era ben consapevole che i termini dell’accordo avrebbero di fatto sancito l’ulteriore allontanamento della Turchia dalla prospettiva dell’Unione: in nessun fidanzamento che si rispetti lo sposo paga la futura consorte per qualche lavoretto sconcio e sottobanco.
Erdogan solleva polvere a uso interno, quindi, per alimentare il nazionalismo sempre più claustrofobico con il quale cerca di occultare i costi proibitivi delle proprie ambizioni, velleitarie e megalomani, a una popolazione imbesuita dal culto della personalità e peraltro ogni giorno sempre meno in grado di accedere a fonti alternative e libere di informazioni.
Il rallentamento della crescita dell’economia turca è una realtà che si associa a un indebolimento della valuta contro la quale la Banca Centrale ha appena deciso un innalzamento dei tassi di interesse che ha fatto imbufalire il presidente. Ed Erdogan sa fin troppo bene quanto la buona performance economica associata (e non necessariamente ascrivibile) ai suoi primi governi sia stata decisiva per la sua ascesa.
Nel frattempo il Paese è scosso da attentati sempre più frequenti e numerosi (l’ultimo ieri ad Adana, vicino al palazzo del governatore), anch’essi frutto almeno in parte delle sue spregiudicate e fin qui inconcludenti mosse politiche. Dopo il repentino voltafaccia del 2013, quando Erdogan chiuse ogni spiraglio di apertura verso i curdi allo scopo di penalizzare l’Hdp, “reo” di avergli sottratto il controllo totale del Parlamento, il Kurdistan è nuovamente in fiamme e sono ripresi gli attentati. A questi si sommano le attività dello Stato Islamico, la cui presenza è stata a lungo tollerata nel Paese e che ora il Reis ha scaricato.
Da questa estate Erdogan ha infatti cambiato cavallo, sempre nel malriuscito tentativo di esercitare un’influenza nella regione, riavvicinandosi alla Russia di Vladimir Putin (al quale dovrebbe la telefonata che gli ha salvato la vita il 15 luglio), facendo peraltro irritare Washington, la Nato e anche l’Unione Europea. Il nuovo sodalizio è però già messo duro a prova. Ieri Ankara ha accusato Damasco di essere responsabile del bombardamento aereo che ha causato la morte di tre suoi soldati (e il ferimento di dieci) avvenuto comunque in territorio siriano. Vedremo le reazioni di Mosca, certo, ma vedremo anche se Mosca alzerà un improbabile disco verde a una rappresaglia turca.

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