Recessione. Ritratto delle due Italie ai tempi delle crisi
La società italiana e le grandi crisi economiche 1929-2016 è il titolo del convegno che l’Istat organizza nell’ambito delle celebrazioni per i 90 anni della sua fondazione all’Università la Sapienza Oggi nell’Aula Magna del Rettorato e domani nella facoltà di Economia
La Grande Recessione che ha colpito l’Italia otto anni fa e da cui il nostro Paese stenta ancora a riemergere rappresenta una cesura epocale per il nostro sistema produttivo. Il confronto con l’altra crisi della storia unitaria, la Grande Depressione degli anni ’30, è pertanto non solo inevitabile ma anche opportuno: gli eventi di quegli anni sono infatti un’ottima pietra di paragone per comprendere i punti di resilienza e vulnerabilità della nostra economia e per giudicare le risposte che la nostra classe politica ha saputo o non è stata in grado di offrire.
Il convegno organizzato dall’Istat per i suoi 90 anni in programma oggi, e intitolato “La società italiana e le grandi crisi economiche, 1929-2016”, si inquadra perfettamente in questo disegno. Partendo dalla ricostruzione delle serie storiche del prodotto interno lordo dal 1861, completata 5 anni fa con la Banca d’Italia e l’Università di Roma Tor Vergata, l’istituto ha chiamato a raccolta i migliori storici economici e sociologi italiani per setacciare somiglianze e differenze tra i periodi di più forte difficoltà per aziende e cittadini.
La scoperta centrale è che sebbene la grande recessione sia stata ben più lunga e profonda della crisi del ’29, il nostro tessuto sociale ha tenuto meglio, grazie al sistema di welfare e alla ricchezza delle famiglie. Questo riconoscimento, apparentemente positivo, nasconde però un’ombra: i costi della crisi attuale sono stati scaricati sul futuro attraverso minori investimenti. Si è trattata di una scelta miope da parte delle nostre classi dirigenti, che penalizzerà a lungo le nuove generazioni.
La peculiare drammaticità per l’Italia di questi ultimi anni è ben descritta nel lavoro di Gianni Toniolo, economista alla Luiss e alla Duke. Per l’economia mondiale nel suo complesso, la Grande Recessione è stata poco più di un breve incidente di percorso, grazie alla ripresa rapida e robusta dei paesi emergenti. In Italia, invece, il Pil continua a languire a un livello di quasi un decimo inferiore rispetto a otto anni fa. «La crisi attuale è stata per l’Italia la più grave dalla storia unitaria», spiega Toniolo.
Davanti a questa sfida ancora più impegnativa della Grande Depressione, le conseguenze per gli italiani sono state però meno drammatiche rispetto agli anni ’30. La diminuzione degli occupati è stata infatti meno marcata, poiché le aziende hanno spesso preferito perdere produttività piuttosto che licenziare. Gli indicatori di benessere, dalla speranza di vita al consumo di calorie, hanno avuto andamenti più positivi che negli anni tra le due guerre. Il nostro Paese è stato infatti protetto dalla sua ricchezza e dal suo stato sociale. Rispetto all’Italia del 1929, quella del 2008 era infatti incomparabilmente più ricca e aveva un rapporto tra spesa pubblica e Pil molto più alto — 48% rispetto a circa il 30%. Questi soldi sono stati usati per aiutare chi era in difficoltà. Il lavoro di Emilio Reyneri, dell’università di Milano Bicocca, mostra come il migliore andamento del mercato del lavoro di questi anni sia spiegato quasi integralmente dalla cassa integrazione. «In assenza di questa misura, a crescente carico della fiscalità generale, l’attuale caduta dell’occupazione sarebbe stata altrettanto grave di quella degli anni ’30», dice Reyneri. Una mano è arrivata anche dai “tesoretti” delle famiglie: come nota Giovanni Vecchi di Tor Vergata la ricchezza privata sta infatti progressivamente calando.
Questo non significa, ovviamente, che la Grande Recessione non abbia colpito alcuni più di altri. Come nel 1929, i divari tra Sud e Nord sono aumentati, anche se con effetti diversi. Emanuele Felice dell’università di Pescara mostra come negli anni ’30, la popolazione al Sud abbia continuato ad aumentare, a fronte di poche possibilità di emigrazione. L’effetto è stato un impoverimento diffuso, soprattutto nelle aree agricole. Oggi, invece, il rischio è lo spopolamento del Mezzogiorno, colpito da una bassa natalità e da un’emigrazione sempre più massiccia.
Ma il problema principale della crisi di questi anni è che abbiamo messo a repentaglio il futuro per limitare i danni nel presente. Toniolo mostra come a fronte di una maggiore tenuta dei consumi, il crollo degli investimenti avvenuto negli ultimi otto anni sia stato ben più marcato rispetto agli anni ’30. La colpa è da imputare ai governi che si sono succeduti negli anni, e che hanno lasciato crollare la spesa pubblica in conto capitale per preservare quella corrente. Da questo punto di vista, le scelte del premier Matteo Renzi e del ministro dell’economia Pier Carlo Padoan restano troppo timide: la legge di bilancio in discussione in Parlamento contiene dei provvedimenti utili per le aziende che vogliano ammodernarsi, ma non dà abbastanza priorità al rinnovamento di infrastrutture fisiche e digitali da parte dello Stato.
L’obiezione più diffusa è che questo sia colpa dell’austerità imposta da Bruxelles. Di primo acchito, il confronto con il 1929 sembra dare ragione a questa tesi: Toniolo mostra come la politica di bilancio durante la Grande Depressione diventi maggiormente espansiva a partire dal 1932, aiutando a sostenere l’economia. Tuttavia, queste spese furono progressivamente destinate a sostenere lo sforzo bellico, di certo non una grande lezione per il presente. Inoltre, la crescita lenta dell’Italia prima del 2008 indica che anche abbandonare la modesta “austerità” in cui siamo non basterebbe a intaccare i problemi fondamentali della nostra economia, che hanno a che fare con la bassa produttività e l’errata distribuzione delle risorse.
Da questo punto di vista, la migliore lezione per le nostre aziende viene dal presente. A differenza degli anni ’30, le esportazioni italiane sono cresciute durante la crisi. Cercare di ammodernarsi per sfidare il mondo sul piano commerciale è una ricetta più lungimirante di qualsiasi rivendicazione nazionalista.
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