«Sulla Difesa non si può più tagliare, dopo che negli ultimi dieci anni le risorse a disposizione sono state ridotte del 27%. Tutto quello che si doveva tagliare si è tagliato, ma ora sul capitolo Difesa è venuto il momento di tornare ad investire»: così ha detto di recente il ministro della Difesa, Roberta Pinotti. In realtà, analizzando i bilanci del suo stesso ministero, fra il 2005 e il 2014, non c’è stato un taglio bensì un aumento delle risorse del 7%: da 19 a 20,3 miliardi, che significa in sostanza che il budget per la Difesa in rapporto al PIL in Italia resta costante, fra l’1,28 e l’1,25% del PIL. E anche nel 2016 c’è stato un aumento del 3,2% (20 miliardi) rispetto al budget 2015 (19,4 miliardi).
Spese militari in aumento, altro che tagli
A mettere in fila con ordine e chiarezza i dati, spesso incomprensibili per i non addetti ai lavori, è il primo rapporto annuale sulle spese militari italiane realizzato dal neonato Osservatorio Mil€x[1]. Mil€x è un progetto lanciato qualche mese fa da Enrico Piovesana e Francesco Vignarca (lo avevamo presentato qui[2]) con la collaborazione del Movimento Nonviolento[3], nell’ambito delle attività della Rete Italiana per il Disarmo[4]. È uno strumento di monitoraggio indipendente, ispirato ai principi di obiettività scientifica e neutralità politica che, riconoscendo l’esigenza di mantenere efficienti e moderne le nostre forze armate, ritiene nondimeno necessario rendere più trasparenti le spese militari italiane, analizzandone in maniera obiettiva gli aspetti critici inerenti alla loro razionalità, utilità e sostenibilità, in particolare per quanto concerne i programmi di acquisizione di armamenti. Quella di oggi è un’anticipazione (in allegato) dal momento che il primo rapporto annuale verrà pubblicato a gennaio 2017: abbastanza però per farsi per la prima volta un’idea di quanto valgano davvero in Italia le spese militari, al netto delle dichiarazioni delle politica.
Scopriamo così che nell’ultimo decennio le spese militari italiane sono cresciute del 21% (del 4,3% in valori reali) salendo dall’1,2 all’1,4% del PIL: più dell’1,1% dichiarato dalla Difesa. L’andamento storico evidenzia una netta crescita fino alla recessione del 2009 con i governi Berlusconi III e Prodi II, un calo costante negli anni post-crisi del quarto governo Berlusconi, una nuova forte crescita nel 2013 con il governo Monti, una flessione con Letta e il primo anno del governo Renzi e un nuovo aumento negli ultimi due anni.
Nel 2017 le spese militari valgono 2,6 milioni di euro all’ora
Nel 2017 l’Italia spenderà per le forze armate almeno 23,4 miliardi di euro: significa 64 milioni al giorno, 2,6 milioni ogni ora. Significa lo 0,7% in più rispetto al 2016 e il 2,3% in più rispetto alle previsioni contenute nei documenti programmatici governativi dell’anno scorso. Dove vanno questi soldi? Cosa incide? La prima voce riguarda il costo del personale, per via della lentezza con cui viene applicata la riforma Di Paola del 2012, per cui ancora oggi nell’esercito ci sono più comandanti che comandati. Si registrano forti aumenti per le spese dell’operazione ‘Strade Sicure’ (da 80 a 120 milioni di euro) e del trasporto aereo di Stato. Questa voce sale a 25,9 milioni (erano 17,4 nel 2016), di cui 23,5 milioni rappresentati solo dal costo del nuovo Airbus A340 della Presidenza del Consiglio: un aereo utilizzato solo una volta in un anno per una missione di imprenditori italiani a Cuba, il cui costo totale per otto anni (2016-2023) risulta essere di 168,2 milioni (noleggio e assicurazione) più 55 milioni di carburante, per una media di 27,9 milioni all’anno.
15 milioni al giorno per nuovi armamenti: servono davvero?
Un quarto della spesa militare totale però (+10% rispetto al 2016) va in nuovi armamenti. L’Italia per gli armamenti nel 2017 spenderà 5,6 miliardi di euro, 15 milioni al giorno, 600mila euro all’ora. Li pagherà in gran parte il Ministero dello sviluppo economico: nel 2017 l’89% degli incentivi alle imprese del Mise andrà infatti al comparto difesa. La scelta di destinare gran parte dei finanziamenti per le imprese a questo settore, che in Italia conta 112 aziende (12 grandi e cento piccole e medie) per un totale di 50mila occupati e 15,3 miliardi di fatturato (dati AIAD), rischia di penalizzare il settore industriale civile e in particolare il comparto della PMI, che da solo conta (al netto delle micro-imprese con meno di 10 dipendenti) 137mila aziende per un totale di 3,9 milioni di occupati e 838 miliardi di fatturato (dati CERVED). Non si tratta peraltro di una scelta inedita: in Italia governi di ogni colore hanno regolarmente sovvenzionato l’industria militare nazionale, per un valore che – considerando solo i programmi principali – supera i 50 miliardi di euro (vedi tabella).
Secondo Enrico Piovesana e Francesco Vignarca, che firmano il lavoro di documentazione, «l’urgenza e la dimensione del procurement militare risultano determinate non da reali esigenze di sicurezza nazionale ma da logiche industrial-commerciali, come esplicitato nei programmi Centauro 2 e Mangusta 2, che hanno come effetto programmi sproporzionati rispetto alle necessità». Programmi che vengono giustificati anche in Parlamento «gonfiando le necessità stesse» (come nel caso del numero degli aerei da sostituite con gli F-35 o delle navi da rimpiazzare con le nuove previste dalla Legge Navale) e «ricorrendo alla retorica del ‘dual use’ militare-civile» come nel caso della nuova portaerei Trieste spacciata in Parlamento come una “unità anfibia multiruolo per il concorso della Difesa ad attività di soccorso umanitario”, di “supporto alla Protezione Civile in operazioni di disaster relief o nel concorso in operazioni di evacuazione e/o assistenza umanitaria/calamità naturali e ricerca/ soccorso”, e delle sette fregate FREMM 2 presentate “pattugliatori polivalenti d’altura per la sorveglianza marittima tridimensionale, il controllo flussi migratori, soccorsi in mare, tutela ambientale”. Nel report si legge che «dopo l’approvazione parlamentare del programma, ottenuta con l’abile ricorso alla retorica del “dual use” militare-civile, le reali dimensioni e i costi delle nuove unità navali si sono rivelati maggiori di quanto inizialmente comunicato al Parlamento, rivelando (come si vedrà nel “Primo rapporto annuale sulla spesa militare italiana”) la vera natura di queste navi».
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