by Emanuele Giordana, il manifesto | 16 Novembre 2016 16:47
Arriva dall’Aja, sede del Tribunale penale internazionale, la prima tegola sulla testa del neo presidente Donald Trump. Una tegola che si chiama Afghanistan – paese da cui Trump ha detto di voler ritirare le truppe – e che è contenuta nel Report on Preliminary Examination Activities della Procura internazionale, ossia quel che in sostanza si intende fare nel prossimo futuro. Il documento prende in esame vari paesi e, tra questi, individua gli Usa per i quali vi sono «ragionevoli basi» per procedere contro soldati e agenti americani che nel Paese dell’Hindukush avrebbero commesso «torture» e altri «crimini di guerra».
Al momento non c’è dunque ancora un procedimento aperto ma solo le risultanze di un esame di oltre un centinaio di segnalazioni sulla guerra afgana che tirano in ballo tre protagonisti del conflitto: i talebani e la Rete Haqqani (la componente più radicale del movimento); la polizia e l’agenzia di intelligence di Kabul (National Directorate for Security), e gli americani.
Il teso del rapporto dice che l’indagine per crimini di guerra riguarda «tortura e relativi maltrattamenti da parte delle forze militari degli Stati Uniti schierate in Afghanistan e in centri di detenzione segreti gestiti dalla Central Intelligence Agency, principalmente nel periodo 2003-2004, anche se presumibilmente sarebbero continuati, in alcuni casi, sino al 2014», in sostanza fino al passaggio di consegne agli afgani dei prigionieri detenuti nella base Usa di Bagram.
Passaggio che, prima che Ghani si insediasse come presidente nel settembre del 2014, si era verificato non senza problemi e meline nell’ultima fase del mandato di Hamid Karzai. Per i talebani la denuncia di crimini di guerra non è una novità. Ma per Washington, e per Kabul, è una tegola politica non di poco conto anche se gli Usa non aderiscono alla Carta di Roma costitutiva della Corte (anzi, dopo averla inizialmente firmata Washington si è ritirata, come Sudan e Israele) mentre l’Afghanistan, che non l’aveva firmata, l’ha poi fatto ratificando l’accordo internazionale nel 2003. Il rapporto della procuratrice generale Fatou Bensouda, una giurista del Gambia, sostiene che durante interrogatori segreti, personale militare e agenti della Cia avrebbero fatto ricorso a tecniche ascrivibili a crimini di guerra: «tortura, trattamento crudele, mortificazione della dignità personale, stupro». Nello specifico si citano i casi di 61 soldati che avrebbero praticato la tortura e altre violenze tra il maggio 2003 e il 31 dicembre 2004 e di membri della Cia che avrebbero sottoposto almeno 27 detenuti a torture, trattamenti crudeli, umiliazioni della dignità e/o violenza carnale, sia in Afghanistan sia in altri Paesi come Polonia, Romania e Lituania (quelli delle extraordinary rendition, ndr) tra il dicembre 2002 e il marzo 2008.
Il documento chiarisce che «questi presunti crimini non sono stati abusi di pochi individui isolati. Piuttosto, sembrano siano stati commessi nell’ambito di tecniche d’interrogatorio approvate, nel tentativo di estrarre informazioni dai detenuti… L’Ufficio ritiene che vi sia una base ragionevole per credere che questi presunti crimini siano stati commessi a sostegno di una politica o di politiche volte a ottenere informazioni attraverso l’uso di tecniche di interrogatorio che coinvolgono metodi crudeli volti a sostenere gli obiettivi degli Stati uniti nel conflitto in Afghanistan».
Quanto alla polizia e intelligence afgana, la tortura sarebbe un fatto sistematico e, al momento, si stima che tra il 35 e il 50% dei detenuti vi siano stati sottoposti. Essendosi ritirati dalla Corte e non riconoscendone la giurisdizione, gli Usa probabilmente non collaboreranno né riconosceranno indagini e verdetto. Sono in buona compagnia: accusando la Corte di aver troppo focalizzato il suo lavoro sull’Africa, Sud Africa, Burundi e Gambia hanno fatto sapere di voler abbandonare il consesso penale.
In effetti la Corte è sempre stata sotto tiro per una sorta di doppio standard: colpire i deboli e lasciar stare i potenti. Ma questa volta le cose vanno diversamente.
La fase procedurale per l’incriminazione o il proscioglimento potrebbe partire nel giro di giorni o settimane. Ma potrebbe però anche durare anni.
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