Fare i conti con il trumpismo per capire l’era post-democratica

Fare i conti con il trumpismo per capire l’era post-democratica

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Il voto si ieri ha espresso il verdetto degli americani sulle elezioni più singolari nella storia recente del paese. Quelle che hanno visto un corpo estraneo insinuarsi in un sistema politico parso d’improvviso disperatamente anacronistico e in profonda crisi. Le elezioni Usa del 2016 sono le ultime nell’ordine ad aver comprovato la crisi fisiologica delle democrazie sotto il peso del liberismo transnazionale che ha sconquassato le classi medie e lavoratrici ed esautorato gli elettori.

L’ascesa «distopica» e post-politica di Trump ha incarnato la reazione viscerale a un alienante ordine globale. Proprio per questo è un errore leggerla come idiosincrasia americana. Soprattutto nel continente che nell’arco di pochi mesi ha visto barricate contro donne e bambini rifugiati, il trionfo isolazionista della Brexit, vagoni piombati in Ungheria, le ascese di Viktor Orbán, Marine Le Pen, Nigel Farage e Matteo Salvini e nelle frontiere sigillate a Ventimiglia la pietra tombale di Schengen e del progetto comunitario.

Trump probabilmente è più pericoloso di ognuno di questi aspetti ma il rancore che ha fomentato nella rust belt deindustrializzata, la paura e le divisioni come strumento demagogico legittimato dal trumpismo, è lo stesso che oggi riverbera da Mosca all’hinterland padano, agli swing states del Midwest. Quella che inizialmente, insomma, era parsa a molti una anomalia da epoca reality o uno svarione destinato ad autocorreggersi, è finito per rivelarsi sintomo di un fenomeno più ampio, quella nuova era nazionalista in cui si possono annoverare anche le prese di potere di Temer a Brasilia e Duterte a Manila.

Sfidando i pronostici il populista post berlusconiano si è impadronito del partito conservatore nazionale e ha trascinato la politica americana fuori da ogni binario con una inquietante quanto efficace campagna demagogica. I primi ad imparare a proprie spese la lezione sono stati i repubblicani debellati come birilli nelle primarie da un candidato che nel giro di poche settimane si è impossessato del Gop sotto gli occhi increduli dell’establishment del partito.

L’esproprio è stato sancito durante la convention dai sorrisi tesi all’interno del palasport di Cleveland e dagli slogan nei comizi degli «insurrezionalisti» di Trump all’esterno, quelli in cui il leader dei Bikers for Trump, Chris Cox, mi assicurava che a gennaio avrebbe portato 1000 Harley Davidson a Washington per festeggiare l’insediamento del proprio beniamino. I tatuati centurioni ed i «patrioti» con vistose armi alla cintola sembravano improbabili corsari all’arrembaggio di un sistema che li aveva troppo a lungo ignorati. Barbari pronti a scorrazzare nei palazzi espugnati di Washington con la foga dei soviet nel Palazzo d’Inverno. In altre parole depositari di un ardore «rivoluzionario» che Donald Trump ha cavalcato fino all’uscio dello studio ovale.

Nei giorni scorsi ha provocato abbondante scalpore e polemica in rete l’endorsement di Trump da parte di Slavoj Žižek. In realtà il filosofo sloveno ha semplicemente sottolineato che fra il liberismo socialmente moderato di una congenita insider come Hillary Clinton e il ribaltone «distruttivo» del suo avversario, è quest’ultimo ad esprimere l’impeto più plausibilmente rivoluzionario rispetto al sistema costituito.

Quello che Žižek ha definito un «riconoscimento disperato» è la valutazione che, fra i due programmi, sia la gestione oculata e moderata di una globalizzazione crepuscolare, cioè il progetto Clinton, il più nocivo. Žižek ha dato voce a chi si domanda in cuor proprio se il nichilismo nefasto, carico di isolazionismo e xenofobie, oggi espresso in molte parti del mondo non sia il fuoco purificatore che è necessario attraversare per poter costruire sulle macerie della democrazia tardo-liberista qualcosa di nuovo.

Trump, nel bene e soprattutto nel male, ha espresso col suo catartico «vaffa» al sistema, un weltanschauung con cui i progressisti, la sinistra del mondo, non può evitare di continuare a misurarsi. E questo significa come avvenuto in America valutare se sostenere candidati imperfetti come argine alle catastrofi prorompenti o tralasciare le battaglie strategiche di retroguardia.

E ancora, se lottare per riformare il tardo capitalismo dall’interno come esorta a fare ad esempio Robert Reich, o cercarvi alternative «esterne» come propone Cornel West. E in ogni caso quali strategie adottare (ambientalismo, localismo, impegno territoriale?) in un panorama post-ideologico, post-fattuale, post-politico – sostanzialmente post-democratico.

Dalle urne americane è uscita un’unica certezza: gli interrogativi si porranno, non solo in America, sempre più urgentemente nei prossimi quattro anni. E oltre.

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